Mai Stati Uniti, l’ultima fatica dei fratelli Vanzina, Carlo ed Enrico, il primo regista e co- sceneggiatore insieme al secondo e ad Edoardo Falcone, rappresenta, per l’ennesima volta, una commedia italiana in cui è evidente lo sforzo d’imbastire qualcosa di più strutturato, dai personaggi meglio definiti, anche riguardo la loro psicologia, ma che non riesce ad andare al di là della solita bastevole gradevolezza d’insieme. Scivola via piatta e anodina, tra sketch ripetitivi o comunque già visti ed uno sguardo al passato incapace di concretizzarsi, dal punto di vista cinematografico, come spunto per proporre finalmente qualcosa di nuovo.
Vincenzo Salemme, Giovanni Vernia, Ricky Memphis
Nel plot narrativo è evidente infatti un richiamo a certe realizzazioni degli anni ’50-’60, l’occhio pudico ed insieme curioso di papà Steno (Stefano Vanzina) per esempio, nell’introdurre le figure dei cinque protagonisti, persone comuni alle prese con una serie di problemi, in un clima di crisi economica: Angela (Ambra Angiolini), aspirante segretaria, schizofrenica farmaco (e psicanalista) dipendente, Antonio (Vincenzo Salemme), cameriere col vizio del gioco e oberato dai debiti, Nino (Ricky Memphis), ex meccanico, divorziato, che cerca di sbarcare il lunario proponendosi come intrattenitore alle feste di compleanno dei bambini, Carmen (Anna Foglietta), precaria attenta all’immagine, piuttosto disinvolta riguardo l’ambito sessuale, ed infine Michele (Giovanni Vernia), Forrest Gump sui generis, appena licenziato dallo zoo dove lavorava. Il loro destino cambierà una volta convocati da un notaio, quando apprenderanno di essere figli dello stesso padre e di aver diritto ad una cospicua eredità, purché ne spargano le ceneri in un posto ben preciso, Arizona, USA…Maurizio Mattioli
Nuoce al film in primo luogo un certo squilibrio tra voglia di riflessione (il tema della famiglia, la rilevanza dei suoi valori) e risata, la quale nasce più per simpatia verso gli attori presi singolarmente che per la rilevanza di battute o situazioni, in un apparato sin troppo citazionista (Antonio/Salemme che viene battuto a carte da un bambino, come in un episodio de L’oro di Napoli, ’54, Vittorio De Sica, o il rapporto di Nino/Memphis col figlio, ripreso da Il giovedì,’63, Dino Risi, già richiamato dai Vanzina in Un’estate al mare, 2008), falsamente ingenuo (un casino scambiato da Antonio e Nino per l’abitazione di un gommista, il solito “no spik inglish”, tra equivoci verbali, e gestuali, con le addette ai lavori) e, a volte, inutilmente movimentato (la comparsata di Maurizio Mattioli, trucido in trasferta).Ambra Angiolini e Anna Foglietta
L’intenzione di una connotazione corale, poi, rimane sulla carta, perché non sempre si viene a creare un vero e proprio amalgama tra le varie interpretazioni, in particolare quando i fratelli inizieranno a conoscersi e il loro rapporto si farà più complice ed intenso. Peccato, soprattutto per i due personaggi femminili, sin troppo stereotipati, tra Ambra schizzata d’ordinanza e Foglietta “prigioniera coatta”, che solo tra le righe lasciano intuire un loro probabile miglior sfruttamento, mentre del tutto spaesato appare Vernia, il cui parodiare continuamente Travis/De Niro di Taxi Driver meriterebbe di essere annoverato tra i reati perseguibili penalmente, con la recidiva della coazione a ripetere.Carlo ed Enrico Vanzina
Resta la sensazione che i Vanzina Brothers, una volta accantonate sia la facile risata, spesso becera e cialtrona, sia la compiaciuta e compiacente messa alla berlina degli italici vizi, non riescano a dare una definitiva coerenza, narrativa e visiva, alla loro capacità di osservazione delle mutazioni in atto nella società, a livello di costume in particolare.Smarriti tra i rivoli di una meccanicità preordinata della messa in scena, i due hanno da tempo perso quel minimo di allegra spontaneità propria di alcune loro pellicole (almeno sino al triste subentro di varie derive triviali e escatologiche), in certo qual modo lungimiranti nella loro pur superficiale descrizione del reale. Un onesto richiamo alla genuinità di un cinema “sanamente” popolare, che sembra difficile possano recuperare, in particolare nei confronti delle nuove generazioni.