Il bucolico e frizzante mondo premoderno, pur nella sua violenza e nelle sue incomprensibili - per l’uomo moderno - superstizioni, non era un mondo che cercava a tutti i costi la massificazione dei costumi. Pur essendo una società di gruppi coesi le mancava la nozione di interesse condiviso o di “bene comune”, se si preferisce, indispensabile per spingere un’idea fino all’ecumene.
In un mondo così approssimativo e vago anche l’universalis ecclesiae faticava a ritagliarsi un ruolo stabile e duraturo. Del resto, per rendersi conto di questa vivacità dei costumi, basta porsi di fronte a qualche dipinto del Carpaccio o all’”affabulante” testo di Huizinga, “L’autunno del medioevo”. In fondo, come ogni osservatore sa bene, l’esigenza di individualizzazione è direttamente proporzionale all’uniformità della società. Oggi questa attitudine verso l’individualizzazione pare segnare invece una controtendenza tale che l’emergenza, come peraltro indica il termine stesso, è guardata sempre con sospetto. Meglio nascondersi e giacere, pascendo così la propria individualità nel caldo ed accogliente giaciglio del grigiore quotidiano. E così l’uomo non si accontenta più del semplice ed asfittico occultamento nell’umanità, ma pretende, nel bisogno di rendere “noi” l’indivisibile “io”, di estendere questa sua inconsistenza a tutti. Per dirla con Leopardi: “di molti tristi e miseri tutti, un popolo fanno lieto e felice”.
Non è in fondo verosimile che l’autentica capacità di “stare al mondo” – come la chiamano costoro – non sia in definitiva nient’altro che il bisogno di estendere a quella presupposta mondanità la propria debolezza per potersene infine rallegrare? Questi tirannelli dello spirito, a sé stessi insufficienti, vorrebbero imprimere il sigillo di questa loro insufficienza a tutto per rendersi quindi meno insopportabili. Sono quelli che chiedono spontaneamente una risposta che loro stessi hanno già premesso ad ognuno: -“ma tu non avresti fatto lo stesso?”-. Per costoro il migliore amico è infatti colui che riesce a confermare la loro bontà perché affetto dalle stesse sozzure, dalle stesse perversioni e dalle stesse debolezze. Vuole insomma mettere alla prova il mondo, e con esso tutti coloro che lo popolano, solo ed esclusivamente per trovare che quel mondo è marcescente e sporco come colui che ne ha messo in dubbio la dignità.
Pericoloso come
lo sono tutti gli uomini addomesticati ed oppressi dalla paura di trovare uno
specchio sul loro cammino, esso ha così paura di scovare negli altri
quell’onestà di cui è incapace. Il manuale per quel “genere” di “uomini con la
coda” riesce ad essere fin troppo esplicito e fuga ogni ragionevole dubbio: “chi è senza peccato scagli la prima pietra”.
Come dire: solo chi ha qualcosa da farsi perdonare può perdonare a sua volta
una debolezza, una volubilità, una colpa.
Se il progetto dello stesso Dio cristiano prevede quindi, ed anzi
desidera coltivare un’umanità che si faccia schifo da sola, ché chi si abbassa
lo fa esclusivamente per essere poi innalzato dalla bassezza altrui, allora
bisognerebbe forse prestare ascolto al proprio impeto umanitario e dargli pure
una mano in tal senso… allevando schiere di lapidatori.
Per quest’”uomo
di specie canina” infatti “ogni grande
esistenza è colpa”. Esso,
come ammonisce Michelstaedter: “non
sopporta che ad altri non basti ciò che basta loro”. O forse non sopporta
semplicemente di percepire la propria “inadeguatezza volitiva” per contrasto,
perché infine “pretende poche cose dalla vita”, o forse reclama solamente di
vivere per poco.
