Di solito non scrivo del mio lavoro qui. Non so come mai. Suppongo di non essere particolarmente timido o riservato. Di certo non mi vergogno di quello che faccio o per qualche motivo, non voglio che si sappia in giro. Semplicemente non ne è mai capitata l'occasione. Forse, sotto sotto, so che c'è qualcuno che lo fa meglio di me (http://icelandichotel.wordpress.com/2010/10/07/profeti-in-patria/).Fatto sta che, per questa volta, voglio fare un'eccezione!
Ogni mattina mi sveglio e, con una buona dose di coraggio, verso le 7.30 esco di casa verso con la faccia appena lavata e il sapore di dentifricio in bocca per mettermi in sella ad una bicicletta che, lungo qualche strada imboccata contromano nel traffico ancora dormiente del centro di Milano, mi porta alla fermata della metro più vicina. Salgo sul primo vagone, scendo al capolinea e un autobus, l'odiata 45, mi scarrozza fino al Monzino. Ed ecco che, ad un orario variabile tra le 8 e le 8.30, sono pronto nel mio camice (il più delle volte bianco) ad iniziare la giornata in quella sorta di trincea che è l'ospedale.Ho sempre pensato che un lavoro con cui si abbia a che fare ogni giorno con persone sempre diverse sia un lavoro in tutto e per tutto migliore. Lo penso ancora, anche se la cieca fiducia nel genere umano che mi permeava alcuni anni or sono viene sempre più messa, col tempo, a dura prova.Potrei raccontarvi qualche singolare episodio riguardo a qualche medico, ma, suppongo, questo non mi renderebbe molto popolare e, probabilmente, sarebbe di gran lunga meno divertente. Così, nel bel mezzo di un'epoca in cui tutti sembrano avercela a morte con i dottori (cospiratori al servizio della Malasanità S.p.A., società tutta italiana di ispirazione mafiosa che vanta migliaia di adepti), ecco che, anche solo per il gusto di andare un po' controcorrente più che per adesione a una categoria, io ho deciso di lamentarmi un po' di chi sta dall'altra parte della cartella clinica. Esatto: i pazienti!Proprio quei simpatici degenti che, nell'immaginario collettivo, vengono percepiti come anime in pena, costrette a soffrire le pene dell'inferno, intrappolati in squallidi ospedali dove vengono bucati, impiantati, tagliati, cuciti, spostati, spogliati, vestiti, catererizzati, medicati, cacciati. Una vera tortura. O forse no.E, se la cronaca è pur piena di eventi incresciosi (a torto o a ragione) attribuibili alla classe medica, poco si sa di quello che succede sull'altro versante.Ve ne racconto un po', di modo che possiate farvi un'idea, una risata, o anche solo abbiate un arma in più per rendervi tanto insopportabili per il vostro curante quando sarete ricoverati in ospedale.
1) "Buongiorno". Entro nella stanza, attorniato da 3 pazienti a letto, sotto le lenzuola bianche, che fissano gli schermi piatti delle TV tutti accesi, ovviamente su canali diversi. Mi faccio coraggio e, sotto lo sguardo indispettito di una Rita dalla Chiesa alla guida dell'ennesima puntata di Forum, impugno il telecomando e premo deciso quel tasto al centro con scritto sopra "muto". Dal letto più lontano giungono mugugni di disapprovazione. Dopo qualche minuto, mentre sto visitando un suo collega, con la coda dell'occhio noto un paziente che si alza, prende e manipola quello strumento del potere ad uso esclusivo del gradino evolutivo che prevede il pollice opponibile e si gode la fine della causa ad un volume stellare. I toni di Korotkoff che arrivano nel fonendoscopio si confondono con gli applausi delle pensionate sedute in platea a rete 4, quando il giudice legge la sentenza.
2) "Qualcuno soffre di cuore in famiglia"? Di solito inizio così l'anamnesi, quella breve (a volte!) sorta di intervista che si fa di prassi ad ogni paziente che entra in ospedale per sapere sempre che cosa ha avuto, a volte che cosa ha, quasi mai che cosa avrà. Un signore distinto, quarantenne, con un paio di occhiali da vista dalla montatura vistosa, mi risponde svogliato da dietro il sipario rosa della sua "Gazzetta dello Sport": "No, sono l'unico". Incredulo lo guardo mentre sfoglia la pagina e continua a leggere mentre cerco nel fondo della mia arrabbiatura la forza di continuare.
3) Un grande classico. Driiiin. Il suono di cellulare (e questo suono onomatopeico è solo la migliore tra la vasta gamma di possibilità di suoneria). Può capitare, per carità. Anche no. Io proporrei di mettere negli ospedali, a intervalli regolari, un messaggio in filodiffusione simile a quello che si sente nei cinema all'inizio della proiezione. Il suono confuso di una dozzina di cellulari prima e, a seguire, un annuncio che di solito induce un po' tutti a frugare in tasche e borsette per premere quel pulsantino rosso in grado di regalare un po' di pace. Di certo esagero, ma sarebbe già abbastanza carino che, mentre palpo l'addome ad un paziente (si dice così!), il vicino di letto (o peggio ancora, lui stesso) non rispondesse al telefono esclamando "Pronto! Ciao! Si, c'è il dottore, ma posso parlare. Vero dottore?!". Il tutto, ovviamente, quasi sottovoce... Si fa per dire.
4) Quando una stanza di ospedale è più affollata di una discoteca in corso Como di venerdì sera. La cocaina di Belen & Co non c'entra! Semplicemente ci sono pazienti che vengono dall'estero, altri che vengono da Milano, altri ancora da qualche remota regione del Sud Italia (di cui di solito parlano come si trattasse dello Zimbawe, ventilando rischi indicibili anche solo per togliere un dente). Ognuno è libero di farsi curare dove meglio crede. Non è solo una buona cosa, è anche un diritto costituzionale. E non è poco. Portarsi appresso tutta la famiglia, però, è, a volte, forse un pochino esagerato. Non ho ancora visto cani, gatti o altri animali da compagnia. Quelli, grazie a Dio, li intercettano all'ingresso. Quasi tutte le mattine però, durante il giro visite, faccio i conti con gli sbuffi infastiditi di cognati, zii, zie, fratelli e sorelle che escono di malavoglia dalla stanza quando chiedo loro se mi lasciano visitare il loro fidato parente. Uscendo mi urtano quasi sempre blaterando qualcosa (spesso in dialetto napoletano, che sfugge alla mia comprensione). A volte lasciano nella stanza il cellulare che, più o meno invariabilmente, comincia a suonare o vibrare con insistenza. E qui si torna al punto 3!
5) Una chicca. Una perla che, per fortuna, è capitata per ora una sola volta. Paziente ligure, di sesso maschile, 45 anni, fumatore, dislipidemico, ipertenso, quasi diabetico e con vari morti di cuore in famiglia. In anamnesi già un pregresso bypass. Me lo immagino un po' triste al pensiero di doversi sottoporre all'ennesima coronarografia (un esame invasivo con cui si studiano le arterie che portano sangue al cuore... non al sopracciglio! Non so se mi spiego!). Invece... Mi trovo a parlare davanti ad un soggetto seduto a gambe incrociate sul letto. Risponde monotono alle mie domande mentre, con le mani, si stacca piccole parti delle unghie dei piedi gettandole a terra. Soffoco un conato di vomito mentre gli chiedo che farmaci assume a domicilio.
6) La fine, come spesso accade, è forse un po' buonista. Ma del resto lo sapete che ho un cuore d'oro. Qualche giorno fa ho visitato un paziente turco, non troppo giovano nè troppo vecchio. Quando sono entrato nella stanza mi ha salutato e in fretta e furia è corso a recuperare il telecomando per spegnere la solita, dannata TV. Mi ha dato del "tu" quasi tutto il tempo, ma sono certo che è solo un problema di lingua.Per farla breve, dopo la visita, siamo finiti a parlare di Instanbul e viaggi in Turchia (tra cui il mio di laurea, bellissimo, appena qualche mese fa). Quasi come due vecchi amici.
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