"Le qualifiche sono queste: tendenza alla malattia infantile. Fedeltà al Partito ma nelle riunioni atteggiamenti estremisti. Perplessità sulla decisione di invitare i compagni lavoratori ad assumere cariche nei sindacati fascisti per operarvi dall'interno. Dubbi sulla priorità dell'industria pesante rispetto a quella leggera nel sistema dei piani quinquennali. Giudizi negativi sulla prospettiva di un Partito di massa. Umanitarismo. Compagnie equivoche all'origine. Scarsa vigilanza rivoluzionaria. Amicizie sottoproletarie."
A farlo, quest'elenco, è Ramiro, il commissario politico della Brigata cui appartiene Spartaco, cui le "qualifiche" si riferiscono; "Spartaco", nome di battaglia di Guido Cellai in Spagna, che manterrà, poi, anche durante la Resistenza, inviato dal Partito come caposettore a Roma, fra Flaminio e la Cassia ( la "Ponte Milvio" di Pratolini). Le pagine sulla guerra civile spagnola sono senz'altro le più belle delle trentacinque che ci sono arrivate. Un romanzo di Pratolini che comincia a Firenze - e dove altro? - nel 1966, e non finisce.
Sono trascorsi vent'anni dalla Liberazione, in quel '66, e Guido incontra Luciana che, da allora, non aveva più rivisto. Era stato lui a farla entrare nel partito, Luciana, di famiglia altoborghese e fascista, convertita al comunismo. Nelle pagine, i flashback si susseguono. Ma come poi sarebbe andata avanti, la storia non si sa, e con ogni probabilità non si saprà mai. Così come non sappiamo se a questa prima stesura, si sarebbe poi ricollegato per scrivere quella che avrebbe dovuto "Chiudere questo ciclo della storia italiana, questa impresa che ho cercato di propormi, con un libro che in qualche modo la riassuma e le dia una dimensione contemporanea". La dimensione contemporanea, si sa, gli piomberà addosso sulle ruote della realtà quando ammetterà che "Se per esempio oggi mi volessi disporre a raccontare una storia dei nostri giorni ambientata a Firenze, di sfondo ci sarebbero le lotte operaie di questi anni [...], ma al centro l'avventura esistenziale di quella ragazza nappista fiorentina fulminata qui a Roma da un poliziotto mentre infilava sola e indifesa la chiave nell'uscio di casa. Non so nulla di lei se non quello che ho letto sui giornali, e mi basta per ritrovarla nelle mie stesse strade oggi, con le sue verità stravolte, la sua determinazione, la sua vita bruciata in pochi anni, lei e suo fratello. Certo non ne uscirebbe un libro come quello scritto da Staiano su Serantini , lei non era Serantini, ma una ragazza di Firenze oggi, con addosso tutta Firenze e il mondo, Vietnam Portogallo Spagna Cile Italia, un eroe del nostro tempo, il quale vedeva tutto in positivo nella sua allucinazione". Aveva trovato il fantasma della sua " malattia infantile"; ora poteva scrivere "Un libro sconvolgente, approssimativo, teppistico, nichilista, sprovveduto eccetera, come dicono, perché importuno suppongo. E ti conforti, guai se un libro non è importuno". Anche se sapeva che "questo libro al quale avevo sì pronosticato vita difficile, ma non un'accoglienza così barbara, cattiva, preconcetta, proditoria come quella che sta avendo e più ancora intuisco gli si prepara".
Tanto che, per l'ultima intervista, sembra avesse posto una condizione: che non si parlasse del suo romanzo incompiuto, Malattia infantile, e, soprattutto, che non gli si chiedesse perché era ancora incompiuto. Sembra che una stesura era quasi pronta, anzi senza quasi, per essere consegnata all'editore. Ma poi era scoppiato il '68 e aveva deciso di non farne nulla. Era superato dai fatti, pensava, e, inoltre, correva il rischio di alimentare il sospetto di piaggeria verso quel movimento. Così tornò a scriverlo, e a riscriverlo, quel romanzo, senza riuscire ad esserne mai del tutto contento, del tutto soddisfatto. E forse, alla fine, prima della fine, ha deciso di distruggerlo. Fatto sta che, per anni ed anni, non pubblicò più niente. Come se avesse voluto diventare irriconoscibile. Irriconoscibile come lo era diventata, ai suoi occhi, la sua Firenze. La città più amata.
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