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Maledetta fabbrica: reagire a condizioni di lavoro assassine

Creato il 10 maggio 2010 da Stampalternativa

Maledetta Fabbrica“Una vita da coglioni”. È questo che pensiamo quando togliamo i nostri indumenti da lavoro, nello spogliatoio, seduti davanti ad una fila di armadietti metallici, prima di fare una doccia e andarcene. Finalmente, lasciare questo luogo d’infamia. La doccia. Non è che abbiamo lavorato più degli altri giorni o che abbiamo particolarmente sudato (siamo fortunati, il lavoro qui è pulito; in altri settori della fabbrica è Cayenne o Germinal). La doccia, come per sbarazzarci del lavoro che ci si è incollato alla pelle durante otto ore. Sbarazzarci delle scorie del lavoro salariato, prima di ritornare alla vita. La vera vita?

La doccia è il rituale per ciascuno di noi e accidenti ai giorni in cui è impossibile utilizzarla per un qualunque problema tecnico. Il passaggio di consegne ai colleghi che ci danno il cambio, la doccia ed è tutto, per ricominciare il giorno dopo… fino alla pensione. Talora, dei momenti forti, una riappropriazione della nostra vita, quando sappiamo dire: “No!”. Una sorta di scintilla. Non di quelle che provocano grandi incendi. No. Piuttosto la scintilla che c’è negli occhi di quelli che dicono: ”Basta”.

Bloccare il reparto, schiacciare i pulsanti, chiudere le valvole, correre per fare le manovre, questa volta siamo noi che decidiamo. Il blocco delle macchine è già una prima vittoria. Sciopero!

Tutto è fermo, le macchine, le turbine, le pompe non funzionano più, i fluidi non circolano nei tubi, i camini non riversano più i loro veleni e soprattutto il silenzio, la calma. Una calma imponente. Il simbolo della nostra forza, per dire no alla gerarchia, ai capetti, al padrone. Non parlo delle giornate d’azione, gli scioperi di ventiquattro ore decisi nelle alte sfere dai nostri strateghi sindacalisti. Non quegli scioperi che non durano, che servono solo a mostrare un certo rapporto di forze, ma dai quali si ritorna alle turbine il giorno dopo. No, parlo di quegli scioperi che arrivano nei reparti, così, senza preavviso.
Mi si dirà che sono categoriali, alcuni. Addirittura peggio, questi scioperi coinvolgono spesso solo un settore della fabbrica. È vero che sarebbe meglio se si facesse “tutti assieme”, ma i proletari non sono tutti i giorni rivoluzionari… se così non fosse, ce ne saremmo accorti da tempo. A volte questi scioperi sporadici, che esplodono in un solo reparto della fabbrica, hanno un effetto valanga e coinvolgono altri settori. Per solidarietà o per rivendicazioni particolari.

Dire no è bello. È un modo di ritrovare se stessi, un po’ dell’orgoglio che abbiamo perso accettando il lavoro salariato. Come se per qualche giorno prendessimo le nostre vite in mano. Questi scioperi scoppiano spesso alla fine di un lungo percorso: intensificazione del lavoro richiesto, delle ore straordinarie di troppo, delle ferie che non possiamo prendere, un capo reparto che ci prende per cretini, o, addirittura, un insieme di tutto questo.

L’insofferenza cresce. La tensione monta nelle squadre, se ne parla al cambio turno insieme agli altri. Col passare dei giorni, delle settimane e dei mesi, pur senza un’effettiva strategia, sappiamo di andare verso il conflitto. Sappiamo che non faremo economia di uno sciopero. Anche il padrone e i dirigenti lo sentono. Sanno che succederà qualcosa, ma una volta che la macchina si mette in moto, non possono far nulla per fermarla. Cercare di comprare i più deboli? Faremo senza di loro.


Maledetta Fabbrica cura di Simona Mammano. Di Daniele Biacchessi, Alfredo Colitto, Patrick Fogli, Pierre Levaray, Valerio Varesi
Collana Senza Finzione
144 pagine
ISBN: 978-88-6222-128-3


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