Pioveva, sul molo della Stazione Marittima dove il piccolo treno che avrei preso aspettava; e della folla di siciliani scesa dal battello-traghetto parte se ne andarono, il bavero della giacca rialzato, le mani in tasca, attraverso il piazzale nella pioggia; parte restarono, con donne e sacchi e panieri, come dianzi a bordo, immobili, in piedi, sotto la tettoia.
Il treno aspettava di essere allungato coi vagoni che avevano passato il mare sul battello; e questo era una lunga manovra; e io mi ritrovai vicino al piccolo siciliano dalla moglie bambina che di nuovo sedeva sul sacco ai suoi piedi.
Stavolta egli mi sorrise vedendomi, eppur era disperato, con le mani in tasca, al freddo, al vento, ma sorrise, con la bocca, di sotto alla visiera di panno che gli copriva metà della faccia.
- Ho dei cugini in America, – disse. – Uno zio e dei cugini…
- Ah, così, – dissi io. – E in che posto? A New York o in Argentina?
- Non lo so, – rispose lui. – Forse a New York. Forse in Argentina. In America.
Così disse e soggiunse: – Di che posto siete voi?
- Io? – dissi io. – Nacqui a Siracusa…
E lui disse: – No… Di che posto siete dell’America?
- Di… Di New York, – dissi io.
Un momento fummo zitti, io su questa menzogna, guardandolo, e lui guardando me, dai suoi occhi nascosti sotto la visiera del berretto.
Poi, quasi teneramente, egli chiese:
- Come va a New York? Va bene?
- Non ci si arricchisce, – risposi io.
- Che importa questo? – disse lui. – Si può star bene senza arricchire… Anzi è meglio…
- Chissà! – dissi io. – C’è anche lì disoccupazione.
- E che importa la disoccupazione? – disse lui. – Non è sempre la disoccupazione che fa il danno… Non è questo… Non sono disoccupato, io.
Indicò gli altri piccoli siciliani intorno.
- Nessuno di noi lo è. Lavoriamo… Nei giardini… Lavoriamo.
E si fermò, mutò voce, soggiunse: – Siete tornato per la disoccupazione, voi?
- No, – io dissi. – Sono tornato per qualche giorno.
- Ecco, – disse lui. – E mangiate la mattina… Un siciliano non mangia mai la mattina.
E chiese: – Mangiano tutti in America la mattina?
Avrei potuto dire di no, e che anche io, di solito, non mangiavo la mattina, e che conoscevo tanta gente che non mangiava forse più di una volta al giorno, e che in tutto il mondo era lo stesso, eccetera, ma non potevo parlargli male di un’America dove non ero stato, e che, dopotutto, non era nemmeno l’America, nulla di attuale, di effettivo, ma una sua idea di regno dei cieli sulla terra. Non potevo; non sarebbe stato giusto.
- Credo di sì, – risposi. – In un modo o in un altro…
- E il mezzogiorno? – egli chiese allora. – Mangiano tutti il mezzogiorno, in America?
- Credo di sì, – dissi io. – In un modo o in un altro…
- E la sera? – egli chiese. – Mangiano tutti, la sera, in America?
- Credo di sì, – dissi io. – Bene o male…
- Pane? – disse lui. – Pane e formaggio? Pane e verdure? Pane e carne?
Era con speranza che lui mi parlava e io non potevo più dirgli di no.
- Sì, – dissi. – Pane e altro.
E lui, piccolo siciliano, restò muto un pezzo nella speranza, poi guardò ai suoi piedi la moglie bambina che sedeva immobile, scura, tutta chiusa, sul sacco, e diventò disperato, e disperatamente, come dianzi a bordo, si chinò e sfilò un po’ di spago dal paniere, tirò fuori un’arancia, e disperatamente l’offrì, ancora chino sulle gambe piegate, alla moglie e, dopo il rifiuto senza parole di lei, disperatamente fu avvilito con l’arancia in mano, e cominciò a pelarla per sé, a mangiarla lui, ingoiando come se ingoiasse maledizioni.
- Si mangiano a insalata, – io dissi, – qui da noi.
- In America? – chiese il siciliano.
- No, – io dissi, – qui da noi.
- Qui da noi? – il siciliano chiese. – A insalata con l’olio?
- Sì, con l’olio, – dissi io. – E uno spicchio d’aglio, e il sale…
- E col pane? – disse il siciliano.
- Sicuro, – io risposi. – Col pane. Ne mangiavo sempre quindici anni fa, ragazzo…
- Ah, ne mangiavate? – disse il siciliano. – Stavate bene anche allora, voi?
- Così, così, – io risposi.
E soggiunsi: – Mai mangiato arance a insalata, voi?
- Sì, qualche volta, – disse il siciliano. – Ma non sempre c’è l’olio.
- Già, – io dissi. – Non sempre è buona annata… L’olio può costar caro.
- E non sempre c’è il pane, – disse il siciliano. – Se uno non vende le arance non c’è il pane. E bisogna mangiare le arance… Così, vedete?
E disperatamente mangiava la sua arancia, bagnate le dita, nel freddo, di succo d’arancia, guardando ai suoi piedi la moglie bambina che non voleva arance.
- Ma nutriscono molto, – dissi io. – Potete vendermene qualcuna?
Il piccolo siciliano finì d’inghiottire, si pulì le mani nella giacca.
- Davvero? – esclamò. E si chinò sul suo paniere, vi scavò dentro, sotto la tela, mi porse quattro, cinque, sei arance.
- Ma perché? – io chiesi. – E’ così difficile vendere le arance?
- Non si vendono, – egli disse. – Nessuno ne vuole.
Il treno intanto era pronto, allungato dei vagoni che avevano passato il mare.
- All’estero non ne vogliono, – continuò il piccolo siciliano. – Come se avessero il tossico. Le nostre arance. E il padrone ci paga così. Ci dà le arance… E noi non sappiamo che fare. Nessuno ne vuole. Veniamo a Messina, a piedi, e nessuno ne vuole… Andiamo a vedere se ne vogliono a Reggio, a Villa San Giovanni, e non ne vogliono… Nessuno ne vuole.
Squillò la trombetta del capotreno, la locomotiva fischiò.
- Nessuno ne vuole… Andiamo avanti, indietro, paghiamo il viaggio per noi e per loro, non mangiamo pane, nessuno ne vuole… Nessuno ne vuole.
Il treno si mosse, saltai a uno sportello.
- Addio, addio!
- Nessuno ne vuole… Nessuno ne vuole… Come se avessero il tossico… Maledette arance.
Elio Vittorini, Conversazione in Sicilia