L’origine del gioco degli scacchi è avvolta nel mistero e solo in base alla tradizione arabo-persiana possiamo ragionevolmente supporre che esso abbia avuto in India la sua culla.
La letteratura sanscrita non ci fornisce in proposito alcuna fonte e solo a partire dal VI secolo d.C., quando il gioco si era già diffuso nella Persia sasanide, cominciamo a trovare documenti in cui si attesti l’esistenza degli scacchi . Si tratta, per lo più, di racconti mitici, come “Il Libro dei Re” di Ferdowsi, dove troviamo una lunga e fantasiosa ricostruzione delle origini del gioco.
Solo con l’inizio della fase araba gli scacchi escono dal mito per entrare nella storia e, grazie alla grande quantità di manoscritti a noi pervenuti, possiamo renderci conto della diffusione che essi ebbero nei paesi conquistati dall’Islam.
Tralasciando le considerazioni di carattere estetico e scientifico contenute nei trattati arabi sugli scacchi, ci soffermeremo su un aspetto degno di particolare interesse e cioè la liceità del gioco. Si tratta di una vera e propria “Questione Morale”, che accompagnerà gli scacchi sino in Occidente e che, ancor oggi, può dar luogo a dispute non del tutto oziose.
In un famoso versetto del Corano (Sura V, v. 92 – edizione Flügel ) si proibiscono il vino ed il gioco e, secondo la tradizione, il Profeta Mohamed, nel ribadire la condanna, fa esplicito riferimento agli scacchi: non solo i giocatori, ma persino coloro che osservano le loro mosse sono “Maledetti da Allah”. Sempre secondo la tradizione, anche Alì, genero del Profeta, vedendo alcuni giocatori, si rivolse loro con sdegno, dicendo: “Forse non siete creati per cose più grandi?”
I moralisti più intransigenti affermavano addirittura che: “Allah rivolge ogni giorno 360 volte il suo sguardo misericordioso sul mondo, senza mai fissarlo sui giocatori di scacchi”.
Data l’importanza delle leggi coraniche nella vita privata e pubblica dei Musulmani, è facile immaginare con quale difficoltà i praticanti e i divulgatori del gioco riuscissero a eludere il divieto.
“Fatta la legge, trovato l’inganno” così recita il ben noto proverbio nostrano, e proprio in base a tale principio, buono evidentemente per tutti i tempi e per tutti i luoghi, si creò una vera e propria giurisprudenza, in base alla quale la condanna finì per essere attribuita non al gioco in se stesso, ma a fattori esterni che potessero lederne la moralità.
Con molto buonsenso e un pizzico di malizia la maggior parte dei giuristi fu indotta a una certa tolleranza a patto, però, che i pezzi non rappresentassero esseri animati, che le partite non fossero oggetto di scommesse e, soprattutto, che i giocatori non trascurassero l’obbligo della preghiera a causa degli scacchi.
I trattatisti fecero di tutto per dimostrare la liceità del gioco, alternando alle dotte disquisizioni una grande quantità di storielle edificanti che presentavano uomini di fede intemerata intenti al nobile gioco. Poeti e scrittori celebrarono coi loro scritti la sua bellezza e il fine ingegno dei suoi praticanti. Il gioco degli scacchi è descritto come un mezzo per affinare le proprie doti e chi eccelle in esso per ingegno o per astuzia può superare più agevolmente di altri le prove ancor più dure e difficili della vita.
Tale assunto è alla base di numerosi aneddoti, tra i quali, particolarmente gustoso, è quello tramandato da al Mas’udi.
Ai tempi del Califfo al-Muhtadi viveva un nobile mecenate, di nome Ahmad Mudabbir, che si era scelto sette commensali, ciascuno dei quali eccelleva in un’arte.
Un giorno, eludendo la sorveglianza del ciambellano, uno scaltro parassita chiamato Ibn Dariag riuscì a intrufolarsi nell’eletta compagnia. Accortosi della sua presenza, il padrone mandò il ciambellano dall’intruso per chiedergli chi fosse e che cosa facesse in casa sua. Ibn Dariag confessò di essere un parassita e di non aver niente da fare.
“Bene!” gli rispose Ahmad, “Potrei anche tollerare la tua presenza a patto, però, che tu mi dimostri di avere qualche talento. Fra i miei amici vi è un abile giocatore di scacchi e se tu riuscirai a batterlo riceverai in premio mille monete d’argento. In caso contrario ti farò scacciare”.
Il parassita accettò la sfida e ne uscì vincitore. Ma, quando era già sul punto di prendere il denaro, il ciambellano, desideroso di vendicarsi e di indurre il padrone a perdonare la sua mancanza, affermò di conoscere qualcuno che sarebbe sicuramente riuscito a battere l’intruso. L’uomo venne convocato e vinse.
Rivolgendosi dunque al parassita, Ahmad gli disse: “Hai perso e, com’era nei patti, dovrai lasciare la mia casa”.
Senza perdersi d’animo, Ibn Dariag gli rispose: “Perdonatemi, signore, ma io ho un altro talento; datemi una balestra e cinquanta dardi, fate mettere il ciambellano a quattro zampe e, se fallirò solo un colpo, fatemi tagliare la testa”.
Assai divertito, il signore acconsentì e il parassita, dalla mira infallibile, mandò a segno tutti i colpi.
“Bene!” disse allora Ahmad rivolgendosi al disgraziato ciambellano: “Conosci forse qualcuno che sappia farlo meglio di lui?”
E quegli si affrettò a rispondere: “No, no, signore, non ne conosco alcuno”.
Federico Bernardini
Illustrazione: La Cupola della Roccia a Gerusalemme, fonte http://it.wikipedia.org/wiki/File:Jerusalem_Dome_of_the_rock_BW_3.JPG