Dove eravamo rimasti? Ci eravamo chiesti se si può smettere di essere mamme pattugliatrici e, se sì, in che modo.
Partiamo dal presupposto che è inutile cercare di negare o stravolgere il proprio modo di essere. Quello che però è possibile fare è cominciare a guardarsi con occhi benevoli e magari imparare a comunicare in modo più piacevole con i propri figli.
Osserviamoci: che mamme siamo? Cerchiamo di sostituirci ai nostri ragazzi, di fare le cose al loro posto? E se sì, perché lo facciamo? Proviamo per un attimo a guardarci dall’esterno per capire cosa si nasconde dietro la nostra ansia. Quali convinzioni guidano il nostro modo di agire? Quali significati aggiungiamo alla realtà che ci circonda?
Se impedisco a mio figlio di fare delle esperienze, se sono onnipresente nella sua vita, probabilmente ho in mente l’idea che il mondo è pericoloso e, di conseguenza, gli trasmetterò questa convinzione e l’idea che non potrà mai farcela da solo. O magari sono controllante perché ritengo che questo sia l’unico modo possibile per essere un buon genitore. Come a dire: “Tanto più ti sorveglio, tanto più ti voglio bene”. In questi casi può anche accadere di sentirci tremendamente ferite se nostro figlio prende le distanze da noi e ci fa intendere che faremmo meglio a non assillarlo. Basterà uno sbuffo, una reazione scocciata e potremmo trovarci a pensare: “Ma guarda quest’ingrato: io faccio tutto per lui e questo è il ringraziamento!”. Probabilmente stiamo anche dando per scontato che il nostro modo di concepire la realtà sia l’unico possibile e non possano esisterne altri.
Fermiamoci ancora un attimo: cosa c’è dietro quello sbuffo? Forse nostro figlio sta dicendoci che vuole camminare con le sue gambe, che ha fiducia nelle sue capacità, che si sente pronto per diventare grande. Ancora, ci comunica che è frustrante sentirsi trattare sempre come un bambino, non essere riconosciuto nel suo essere individuo autonomo e indipendente. E dietro il nostro sentirci ferite c’è tutto lo sconforto di chi ha paura di sentirsi inutile e non si rassegna all’idea di rimanere spettatrice anziché attrice protagonista di un film che non le appartiene. Già…mettiamo al mondo i nostri figli ma facciamo fatica ad accettare che non ci appartengono.
E allora, se riconosco di essere una mamma pattugliatrice cosa posso fare? Prima di tutto guardarmi con tenerezza e accettarmi per come sono. Non pensate che sia semplice perché solitamente, anziché accoglierci con le nostre fragilità, rimuginiamo su quello che dovremmo essere e spesso facciamo lo stesso con le persone che ci circondano (figli inclusi).
In seconda battuta posso iniziare a riconoscere i momenti in cui vengo presa dall’impulso irrefrenabile di controllare mio figlio o sostituirmi a lui. Quando sarò in grado di individuare questi episodi potrò provare a fermarmi un attimo prima, a riflettere sul fatto che essere iperprotettiva soddisfa più un mio bisogno (di sentirmi indispensabile) che quello dell’altro. E poi? E poi posso decidere che voglio assolutamente soddisfare questo mio bisogno ma allora dovrò accettare la reazione del mio interlocutore, comprendere come potrà sentirsi, che cosa potrà portarlo a reagire in un modo che non mi aspetto e che probabilmente non mi piacerà.
Facciamo un esempio concreto:
Marco è un ragazzo di 28 anni, figlio unico di Luigi e Fernanda, mamma iper-apprensiva. Riesce a realizzare il desiderio di andare a vivere da solo ma Fernanda lo convince a prender casa nell’appartamento di fronte al suo… “così se avrai bisogno di qualsiasi cosa saremo vicini“. Riesce anche a farsi lasciare una copia delle chiavi dell’alloggio: quando Marco è al lavoro va a riassettarlo (convinta che gli uomini single si trascurino troppo!) e prepara la cena in modo che il figliolo al ritorno abbia solo da scaldarla. Forse è un po’ troppo solerte nel riordinare perché fa sparire inconsapevolmente dei documenti importanti e così Marco, infastidito, decide di parlarle.
Marco: “Mamma, ti prego di non venire più a casa in mia assenza. E avvertimi quando hai intenzione di venirmi a trovare. Ho bisogno della mia privacy“.
Fernanda si offende mortalmente e non lo chiama per una settimana!
Ogni accusa ed ogni critica nascondono bisogni insoddisfatti. Marco reclama il suo bisogno di autonomia, Fernanda quello di sentirsi una madre utile. Come risolvere la situazione senza soffrire? Ognuno dei due può sospendere il giudizio, smettere di pensare che l’interlocutore voglia ferirlo. Accettare l’altro significa comprendere che vede il mondo a suo modo, che gli attribuisce i suoi significati. Fernanda potrebbe quindi cominciare a realizzare che Marco farà del suo meglio per stare bene, che le chiederà aiuto se ne avrà bisogno e che se non la vuole troppo nella sua nuova casa avrà i suoi buoni motivi. Marco, dal canto suo, dovrebbe smettere di pensare che la madre se lo ama deve capirlo. D’altronde nessuno può comprendermi solo perché io glielo chiedo.
L’accettazione amorevole permette ad ognuno di intraprendere liberamente la propria strada, consente di accettare che le cose sono così come sono ed aiuta dunque ad allentare l’ansia da controllo.
Fonte:
L. Scarpa, Tranquille dentro – Il piccolo talismano della mamma, 2012 Milano, Ponte alle Grazie