Management fees, queste sconosciute
L'articolo che segue è molto particolare e ringrazio Gianfranco Giacomo D'Amato per avuto il tempo e la pazienza di scriverlo. Vi chiederete cosa c'entrino le management fees in un blog letterario, ebbene c'entrano eccome, soprattutto se prendiamo in considerazioni grandi aziende internazionali come Facebook, Google, Amazon etc etc. La questione alla base è semplice: perché loro non pagano le tasse in Italia su articoli che noi compriamo tutti i giorni? Se i nostri soldi finiscono sempre all'estero, non possiamo davvero sperare in una ripresa economica e, di conseguenza, trovare un posto di lavoro diventa sempre più una chimera.
di Gianfranco Giacomo D'Amato
Prendo spunto da una dichiarazione di Fedele Confalonieri e da una richiesta dell'amica Irma Panova Maino, per un commento su un fenomeno piuttosto irritante che riguarda diverse multinazionali che, in un modo o nell'altro, drenano favolosi introiti nel nostro paese senza colpo ferire a livello fiscale. In sostanza incassano, non pagano le tasse e fanno ciao con la manina.
Ho conosciuto Confalonieri. Non è un politico, il suo mestiere non è parlare. È un manager capace e pragmatico che pesa bene quello che dice. Lui si è espresso a proposito dei colossi del web (tutti americani) e di come conquistano introiti all'estero senza assumere quasi nessuno e praticamente senza pagare le tasse.
La questione è semplice: il web è ancora, fiscalmente, un'area franca.
Io vendo pubblicità (per esempio) perché sul mio sito o sul mio social network circolano decine di milioni di italiani, me la faccio pagare dalle aziende italiane (e anche dai privati) ma non pago le tasse in Italia perché sono un'entità virtuale che riceve i pagamenti direttamente all'estero oppure anche in Italia, ma solo in transito.
A volte addirittura non sviluppo in Italia nemmeno i contenuti (cosa per la quale avrei bisogno di un minimo di massa critica di dipendenti) ma li prendo virtualmente gratis da chi li ha. Il risultato è eccezionale: sede italiana pressoché inesistente (basta un ufficio e pochi impiegati), costo del lavoro praticamente nullo, tutto delocalizzato altrove. Non c'è nulla, nemmeno le tasse. Mi tengo solo i profitti. E i dati sensibili di milioni di clienti.
È lecito, per carità. Ma eticamente ed economicamente inaccettabile. Esistono delle modalità per evitare che questo continui ad accadere. Sarebbe il caso di metterle in atto. Altrimenti continuiamo a essere una colonia commerciale.
Secondo caso: le multinazionali che offrono altri servizi e soprattutto prodotti tecnologici. Intanto diamo per scontato che il mercato italiano del lavoro, paralizzato da una cultura adeguata alla difesa della classe operaia di circa mezzo secolo fa, non può assolutamente competere non solo con i paesi emergenti, ma nemmeno con molti paesi europei "evoluti". E quindi, pensare che oggi qualche multinazionale possa decidere di allestire degli stabilimenti di produzione in Italia è una pura illusione.
Ma andiamo oltre.
L'Italia è un mercato ricchissimo per chi vende certi servizi e certa tecnologia "alla moda". Siamo storicamente tra i paesi con la più alta concentrazione di telefonini, ora " smartphone", e di molto altro. I consumatori italiani si privano di mille cose, ma non dello smartphone di grido. E anzi, lo cambiano appena esce una nuova versione.
Quindi, giustamente, le multinazionali che vendono questi prodotti ci considerano un mercato appetibile e sono presenti nel nostro paese dove producono fatturati faraonici. Peccato che al nostro paese non resti niente al di là dell'IVA, che gli italiani stessi versano al momento dell'acquisto. Infatti, la pratica comune delle multinazionali è quella di "spostare" i guadagni in altri paesi europei fiscalmente più convenienti.
Come si fa? Semplice.
L'azienda "Lemon" vende milioni di smartphone e incassa cifre da capogiro. Diciamo 1,5 miliardi di Euro. I margini per la tecnologia "aspirazionale", quella che tutti vogliono possedere e il cui costo di produzione è irrisorio rispetto al prezzo di vendita, sono enormi.
Detratti i costi (bassissimi) in cui la "Lemon Italia" incorre, la filiale italiana della multinazionale registra un guadagno (altissimo), diciamo di circa 1 miliardo di Euro.
La Lemon Italia dovrebbe quindi pagare le tasse su questo miliardo. Ma sarebbe stupido. Meglio spostare il miliardo alla "Lemon Irlanda": in quel paese le tasse sono molto più basse e l'utile finale post-tassazione risulta molto più alto.
Allora la "Lemon Irlanda" fattura alla "Lemon Italia" un miliardo di Euro in " management fees" i famigerati servizi professionali intercompany. In sostanza il ragionamento è questo: io che sono la Lemon, in Italia ho solo una filiale di vendita con dei negozi ed uno staff (ridottissimo) che supervisiona la distribuzione nel paese. Il cervello di tutto, i mega manager, le strutture di supporto per ogni area aziendale si trovano altrove. E quindi se incasso quelle cifre in Italia è soltanto perché altre aree della mia multinazionale lavorano per l'Italia. Quindi la consociata Italiana deve pagare altre consociate per questo "servizio". Ovviamente le consociate che beneficiano dello "spostamento" sono sempre quelle delle nazioni a tassazione più bassa.
La "Lemon Italia" chiude così il bilancio a zero o quasi. E paga pochi spiccioli di tasse nel paese in cui vende milioni e milioni di prodotti. E i soldi dei consumatori italiani finiscono all'estero.
Ho semplificato per spiegare il concetto.
Le cose sono un po' più complesse. A volte ai "servizi professionali" si affiancano altri strumenti per generare costi, ma la sostanza non cambia. I documenti allegati alle fatture intercompany sono contratti per lo più ridicoli. I controlli sono minimi, anche perchè la cosa, realizzata per bene all'interno della UE, non è facilmente attaccabile. Siamo al limite del lecito, a seconda di come lo si fa.
Diverso è quando il trucchetto lo si fa con aziende diverse, con le scatole cinesi, con flussi che finiscono in paradisi fiscali extracomunitari. Lì il confine del lecito si supera con disinvoltura. Ma anche in quel caso è difficile agire, perché è complicato scoprire quello che accade.
Ed ecco il fantastico risultato finale della Lemon:
- la produzione HW (hardware) è in Vietnam
- lo sviluppo SW (software) in India
- i call center per l'assistenza in italiano sono nell'est europeo o in Africa
- i dipendenti, che si occupano dell'amministrazione, delle procedure, dei progetti si trovano in Slovacchia o in altre nazioni europee a basso costo.
Del miliardo e mezzo sborsato dagli italiani non resta niente: le tasse vengono pagate in Irlanda e i profitti finiscono agli azionisti, per lo più americani. In Italia restano solo due cose: milioni di smartphone della Lemon e un pugno di dipendenti con la maglietta gialla "Lemon" in pochi punti vendita dedicati.
Qualcuno potrebbe dire: è la globalizzazione, bellezza!
Ma certo.
Il problema è un altro: la globalizzazione è, per l' appunto, un fenomeno globale e quindi esiste dappertutto. Ma in altri paesi ci sono anche delle regole un po' più serie da rispettare. Sarebbe il caso di pensarci anche qui, insieme, ovviamente, ad abbassare il regime fiscale che è molto alto (anche se non necessariamente più alto che in alcuni altri paesi). Non c'è da preoccuparsi che accada qualcosa di spiacevole, che la Lemon, in presenza di qualche regola in più, decida di lasciare il mercato: i suoi profitti sarebbero comunque faraonici anche se pagasse le tasse in Italia. Né, stando in un mercato globale, potrebbe alzare i prezzi in Italia ribaltando il problema sui consumatori.
La verità è che pestare i piedi ai colossi è politicamente difficile. Ci sono delle alleanze internazionali e degli equilibri da mantenere.
Però qualcosa si può e si deve fare. Almeno per rimanere nella decenza...