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“Mandami tanta vita” di Paolo Di Paolo

Creato il 11 giugno 2013 da Sulromanzo
Autore: Beatrice MantovaniMar, 11/06/2013 - 15:30

Paolo Di Paolo, Mandami tanta vitaQuest’anno Paolo Di Paolo, romano classe ‘83, è entrato a pieno diritto nella rosa dei dodici candidati al Premio Strega con il suo ultimo romanzo, intitolato Mandami tanta vita, edito da Feltrinelli tre mesi fa. Il libro si ispira alla figura di Piero Gobetti (1901-1926), intellettuale antifascista, che fondò varie riviste e una casa editrice, dando contributi significativi alla vita politica e culturale del nostro Paese, prima che le sue precarie condizioni di salute – aggravate dalle percosse subite dalle squadre fasciste – ne provocassero la prematura morte a venticinque anni. Nella Nota alla fine del volume, Di Paolo confessa che l’idea di questo romanzo si era impossessata di lui fin dal 2008, da quando, cioè, stava per compiere gli anni che Piero Gobetti non ha compiuto. Ad ispirarlo fu, tra le altre cose, l’intenso epistolario di Piero e Ada Gobetti, Nella tua breve esistenza. Lettere 1918-1926, curato da Ersilia Alessandrone Perona per Einaudi.

È il carnevale del 1926, un febbraio «sleale e feroce» incombe su Torino e per le vie della città sfilano Gianduia e Giacometta. Moraldo studia Lettere all’università e, durante una lezione su Dante, assiste alla protesta sprezzante di uno studente che interrompe la lettura del paludato professore. Ad alzare la voce è Piero, studente di Legge, che ha fondato una rivista che «pone come base storica di giudizio una visione integrale e vigorosa del nostro Risorgimento», sulla quale parla di demagogismo, trasformismo, tirannide, esilio in patria, «le storiche malattie italiane e che nel fascismo erano riassunte tutte». Moraldo prova un’istintiva antipatia verso questo coetaneo altezzoso, ma, in realtà, è attratto dalla sua determinazione e dal suo ingegno. Come fa Piero, così giovane, ad avere già fondato varie riviste e una casa editrice?

Moraldo, appena giunto a Torino per una sessione d’esami, si reca in casa Bovis a Piazza Vittorio – dove ha preso una stanza in affitto –, si accorge di aver scambiato la valigia con quella di uno sconosciuto e, tramite un annuncio su La Stampa, riesce a riavere indietro la sua. Conosce, così, Carlotta, fotografa disinvolta ed enigmatica di cui si innamora. Decide di seguirla fino a Parigi, spinto dall’amore e dal desiderio di compiere un gesto virile. Anche Piero ha deciso di «andare a Parigi come l’unica soluzione per resistere». La sua casa editrice, infatti, è stata chiusa in ossequio alle direttive mussoliniane e le sue riviste sequestrate. Spera di poter trasferire lì la sua attività editoriale: «bisogna restare politici nel tramonto della politica». A Torino ha lasciato la moglie Ada e il figlio nato da un mese.

Moraldo è il giovane che non ha ancora trovato il proprio posto nel mondo e Piero «è solo un ragazzo di ventiquattro anni, anche se fa l’uomo da sempre». Due facce della stessa medaglia. Vicende storiche e fatti di pura fantasia si intrecciano, dando vita a un romanzo denso, che si interroga sul senso della vita, sulla voglia e sulla fatica di essere giovani e di lasciare la propria traccia nel mondo. «Esiste qualcosa che davvero possa lasciare traccia, in questa eterna confusione del mondo? Un’azione, un gesto umano in grado di modificare il corso delle cose? Si può agitare l’acqua di un lago con la forza delle nostre dita? Il tempo di una singola vita umana non permette di misurare il risultato di una battaglia, ma non per questo perde senso lottare. È così, monsieur, è vero? Potrebbe chiederlo al tassista. Potrebbe aprire il finestrino e domandarlo ai passanti, gridare Le idee, almeno le idee, ci sopravvivono? Forse anche i sentimenti».

Una prosa asciutta, a tratti nervosa, ci restituisce il punto di vista di entrambi i protagonisti. I sentimenti sono netti, precisi, i contorni delle cose ben delineate. Vi è, in sottofondo, unpathos che restituisce alla politica un’eticità che diviene abito culturale e strumento di resistenza. Non a caso, la casa editrice fondata da Gobetti recava il motto «Che ho a che fare io con gli schiavi?».

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