Che Lars Von Trier non mi stia simpaticissimo [ehi, ma non ho fatto battutine sul Von che si è messo da solo... ops!] credo che oramai sia cosa abbastanza chiara. Ogni tanto la battutina sui di lui capita, non tanto quanto il mio amico Cinefollie dica di non apprezzare Nolan, ma comunque è un concetto che ogni tanto tiro fuori. Eppure nel mio piccolo ho stupito un po' tutti quando ho detto di aver letteralmente amato un film come Dogville, un film dove il danesone internazionale era riuscito davvero a shockarmi come nei suoi intenti, facendomi iniziare la sua visione con una pellicola bellissima e altamente straniante. L'unica - o almeno, una delle poche fra quelle sue che ho visto - ad essermi veramente piaciuta e a non farmi sentire quel senso di vuoto concettuale che mi lascia solitamente. Perché il ragazzo per me ha tutte le carte in regola per farsi valere o sfornare uno dei tanti millantati capolavori, ma si ferma a metà strada per delle manie di grandezza che proprio non riesco a digerire, dato che un minimo di capacità alla fine gliela riconosco. Questo poi è testimoniato dal fatto che, nonostante mi sia fatto un'idea vagamente precisa su di lui, non mi perdo i suoi film e ne ho visti gran parte. Gli riconosco infatti che sa tirare fuori dei concetti interessantissimi e che da soli valgono la visione, però non sempre li esprime in una forma a me congeniale. Nel sapere però che la 'città del cane' aveva un seguito, mi era salita nuovamente la curiosità.
Grace, dopo aver messo a ferro e fuoco la città di Dogville, capita col padre gangster in un paese dell'Alabama, Manderlay. La ragazza scopre che lì i neri vengono ancora tenuti in schiavitù e, dopo aver assistito alla morte della vecchia proprietaria di una piantagione, decide di prendere il controllo e dare la libertà agli schiavi...
Ci sono dei gran cambiamenti. La bella e algida Nicole Kidman viene sostituita dalla più giovane ma ugualmente brava Bryce Dallas Howard (sì, la figlia del rosso di Happy days), mentre il padre di Grace assume le fattezze del grandissimo Willem Dafoe, purtroppo usato per una parte fin troppo di contorno - ma per quanto breve, la sua presenza è sempre gradita. Cambia anche lo sfondo, pur mantenendo la stessa struttura: non più pavimento nero e sfondo bianco, ma pavimento bianco e sfondo nero. A questo giro infatti si parla di schiavitù e quindi, a detta del Danese, su uno sfondo bianco gli attori di colore sarebbero stati più facili da vedere. La seconda parte della trilogia americana di Trier quindi prende il via e, stando alle parole del diretto interessato, a questo giro si vuole analizzare il concetto di democrazia e come essa viene esportata, con tanto di riferimento alla fallimentare campagna fatto dal governo USA per la guerra in Iraq. Grace infatti rappresenta, in quella che è una delle parti più arretrate dell'America del nord, la volontà di inserire un cambiamento che possa portare a un'agognata civiltà che però tarda ad arrivare. Buoni intenti, ma realizzazione non all'altezza. Grace infatti rimane sempre un po' troppo ingenua e, anche a questo giro, finisce per venir gabbata e trombata - in tutti i sensi - per via di questa sua volontà di voler ricreare il bene a tutti i costi in un mondo che però non è ben disposto ad accettarlo. Un film davvero politicamente scorretto come piace a me, che anziché puntare su shock visivi e gratuiti (seriamente, i cazzi che sborrano sangue non fanno per me) come nel primo tassello fa leva su quelle che sono le concezioni della mente, con un finale che mi ha strappato una risata amarissima e mi ha spinto a delle riflessioni non da poco sul razzismo - che comunque, condanno a prescindere in ogni maniera, anche se si andrebbero a fare delle parentesi eterne e inutili. Anche se però mi ha saputo scuotere dal lato intellettuale, però, mi ha lasciato parecchio freddo su quello emotivo e su quello cinematografico, che ancora oggi ha diverse cose che non mi vanno giù. Innanzitutto mi ha infastidito parecchio l'essere rimasti sulla stessa cifra stilistica del primo. So che può essere una contraddizione in termini, dato che fa parte di una trilogia e questo dovrebbe essere il fil rouge che unisce tutti i tasselli, ma se mi cambi in maniera così drastica gli attori perché non fare lo stesso con la scenografia? Inoltre prima il tutto era girato in un teatro di posa per far leva su un concetto che, per quelli che sono gli intenti di questa storia, molto più concreta nei risultati, vanno un po' a perdersi, lasciandolo come uno sperimentalismo fino a se stesso. Sono un cagacazzi? Of course, baby. Ma se un autore vuole prendersi sul serio e fare lo sperimentale a tutti i costi, queste riflessioni, senza nulla togliere a quelle che sa esercitare volontariamente, vanno a sommarsi a tutti il resto, togliendo punti al voto finale. Così come va a togliere altri voti un colpo di scena finale che ho trovato vagamente forzato e poco plausibile, sicuramente utile a far valere il concetto (validissimo, quello) ma che, nella sua singolarità, non sono riuscito ad accettare. Certo, c'è quel dialogo finale del narratore che lascia aperta la porta per il capitolo finale (spero lo giri al più presto, davvero!) che da solo vale tutta la visione, ma non ce la faccio a valutare questo film come un'opera totalmente riuscita come la precedente. E' il risultato della mente partoriente di un autore che, si ami o non si ami. non ha mai avuto paura di rischiare e di dire la sua, quindi va rispettata a prescindere, eppure si barcamena in un viaggio forse necessario ma senza l'equipaggiamento adatto. Ci arriva, oltrepassa il traguardo ansimante, sporco e senza fato, ma ci arriva. Non bene come magari hanno fatto altri o come ha saputo fare lui stesso in precedenza, ma certe rare volte non conta come, ma solo che una cosa la fai fino in fondo.Ho un po' paura, adesso. Spero che non succedano casini perché, quando io parlo di questo regista, finisco sempre nei guai.Voto: ★★★