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Manderlay

Creato il 01 marzo 2010 da Eraserhead
ManderlayA scuola con Lars
Abbandonato il villaggio/canile di Dogville, una nuova, eppure uguale, Grace, si imbatte in compagnia del paparino Dafoe, nel villaggio/prigione uguale, eppure diverso, di Manderlay.
Man-under-lay. Uomini sotto la legge di Mam, Lars von Trier legifera come il vecchio Wilhelm: se non ci sono leggi non si può andare avanti. Non sopravvive una piccola comunità di schiavi, non procede, in linea teorica, il suo cinema. Il Dogma è stato solo la punta dell’iceberg, sotto, in ogni sua opera, si scorgono vincoli e imposizioni che valgono come un compito assegnato a lezione dal professore. Egocentrico, ma in una forma impersonale, come il regista danese è, prende posto contemporaneamente sia dietro la cattedra che dietro il banco. Lars è uno studente furbo, il compito gli riesce quasi sempre, la lezione molto meno.
In Dogville (2003) è riuscito ad integrare i due aspetti “educativi” (lezione e compito) con un film che ha per di più una carica emotiva s-co(i)nvolgente. Manderlay (2005), per contro, è un involucro freddo in cui Trier ha inserito una retorica da pochi dollari esplicitandola al massimo. I momenti in cui Grace si mette ad “insegnare la democrazia” facendo lezione agli schiavi, trasformano la protagonista da fiero animale (un cane selvatico?) del primo capitolo, a maestrina (ammaestrata) del secondo, con susseguente inimicazione agli occhi dello spettatore.
Proprio la figura della novella Grace, forse la Howard è più aggraziata ma è meno carismatica della collega, rappresenta un passo indietro nell’ispezione trieriana dell’America. Il primo film reggeva – anche – per il mistero che avvolgeva la Kidman, fragile silhouette in costante pericolo, e il suo candore, ovviamente apparente, che la elevava nei confronti degli altri abitanti. Di questa Grace, invece, ormai sappiamo tutto perché il prof. Trier ce l’ha detto chiaro e tondo: lei vuole fare del bene, difendere i deboli e portare equità nella piantagione. Ma allo stesso modo sappiamo che è figlia di un gangster, e che perciò sta anche dalla parte dei cattivi, è potenzialmente malvagia, e che forse degli essere umani non le importa più di tanto. Il personaggio è diventato prevedibile perdendo di fascino.
Anche gli abitanti di Manderlay sono uno stuolo di luoghi comuni (classificati apposta, sì, ma pur sempre stereotipi, da stereòs, immobile) che non muovono ragionamenti aldilà dello schermo.
Il set, di nuovo un teatro di posa, è ancora più scarno del precedente, ma soprattutto è molto più scuro, tenebroso, mono-tono. Mancano quelle incantevoli riprese dall’alto, superate da un uso inflazionato della camera a mano.
Come Von Trier insegna (aridanghete) la macchina a mano mostra la verità. Ma se la Verità è il precipitato di un racconto bolso, fiacco e apatico come possiamo noi alunni venire educati? Cosa si può imparare da un insegnamento che non stimola il pensiero? La verità è che non esistono lezioni noiose, ma solo professori tediosi.

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