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Perché in fondo a parlare di passato e di vecchiaia è sempre meglio che sia il presente e la vecchiaia stessa, visibile in tutti i suoi difetti: psicologici e fisici. E se c'è una nota di autenticità che non si può rimproverare al "Manglehorn" di David Gordon Green è esattamente questa, l'aver messo Pacino di fronte ad un ruolo che abbraccia il tempo senza alcuno scudo, e che risulta, inoltre, diametralmente distante da ogni personalità autoritaria in cui l'attore è solito mostrarsi. Il fabbro solo, incatenato al passato, che non ha la minima intenzione di riprendere in mano la sua vita finché la donna che ha lasciato andare via anni prima non si rifaccia viva, è infatti un ritratto preciso della debolezza e della pena, la nitida istantanea di un anziano che, a parte la manualità del suo lavoro, ormai nel mondo si muove a fatica, non sa più cosa vuol dire agire ed emana stanchezza ad ogni sguardo.
Che poi lo sviluppo di Green finisca per andare controcorrente rispetto alla lealtà delle premesse, lasciando che la pellicola proceda da sola, con pilota automatico, senza mettere lui stesso uno sprint registico che possa aiutare il suo lavoro a sfuggire da un eventuale dimenticatoio, è tutto un'altro discorso.
Un discorso che, però, non si può evitare.
A controbilanciare il movimento e l'azzardo dell'attore, ci si mette, dunque, l'immobilità del regista: un Gordon Green inesistente e pigro. La sua regia equivale ad un accompagnamento, è priva di afflati e segue le sorti di una storia già scritta che se regge in piedi fino all'ultimo è merito solo di chi la tiene sulle spalle. Nessun colpo di scena, nessun movimento brusco sostiene "Manglehorn", anzi, è più facile pensare all'esistenza di un'attenzione maniacale chiamata a tenere invariato un ordine prestabilito di causa ed effetto. Ogni cosa è matematica e già vista: ad A corrisponde B, dopo B c'è C e così via. Monotonia che spesso ruba la scena, chiamando alla luce quesiti sul perché quando in cattedra sale Al Pacino ognuno sembra dimenticarsi di dare importanza a ciò che deve girargli intorno.
Ma, misteri a parte, "Maglehorn" potrebbe essere davvero, nonostante tutto, per Pacino un punto da cui ripartire e rilanciarsi (ma molto dipende dalle sue intenzioni), come per David Gordon Green è nettamente solo un passo indietro, l'ennesimo tra l'altro nella sua carriera, costellata di medio-alti, medi e bassi. E con cui noi facciamo ancora fatica a fare i calcoli.
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