(già pubblicato su Lankelot)
Per scansare subito il campo da equivoci. Il titolo del libro non fa riferimento alle terminazioni degli arti superiori umani, ma alla penisola centrale delle tre che disegnano il profilo della costa sud del Peloponneso. Il libro che da questa regione prende il nome è il frutto di una straordinaria penetrazione storico-geografico-culturale e spirituale ad opera del politropos Leigh, forse l’esempio più alto, dopo Byron, di quello speciale gemellaggio amicale che collega l’Inghilterra alla Grecia dal 1800 in poi. Non è necessario essere esperti di geografia ellenica per gustare questo libro. Basta essere affamati di grande letteratura e di sapere. Infatti, per quanto spazialmente limitata la peregrinazione di Leigh, nel momento in cui essa viene rielaborata in libro, i confini spazio-temporali crollano, Omero diventa uno zio scomparso l’altro ieri, gli déi tornano a muovere le fronde dei boschi e le maree, la conquista di Costantinopoli diventa un semplice inciampo della storia a cui l’immaginazione sa porre rimedio e la radice della cultura che ci ha partorito e ci alimenta spande la sua succosa linfa fra le sinapsi del lettore.
Mani, il libro, è un oggetto difficile da classificare. Leigh dice che è il risultato di una delle sue “private invasioni” della Grecia, dice che è sicuramente “l’opposto di una guida”. Forse ha ragione, ma io non avevo mai letto un libro che sapesse “guidare” così addentro nell’anima di un luogo. È un libro di viaggio, ok, ma è anche molto, molto di più. È un libro scritto divinamente, questo è certo: che ci parli dei gatti tutori dei pescherecci greci, dei metodi migliori per smaltire i postumi di una sbornia di ouzo, che disquisisca lungamente sul carettare transcendente e intrinsecamente filosofico dell’iconografia bizantina rispetto a quello emotivo della pittura europea; che si lasci prendere la mano da un’immaginazione imbizzarrita che immagina i Turchi che, con le dovute scuse, restituiscono Costantinopoli ai greci e se ne tornano su verso le steppe mongole, oppure che connetta le vaste lande del mondo cavalcando i rimandi da costa a costa dei canti dei galli, in ogni caso Leigh possiede una penna magistrale. Le numerose descrizioni dei paesaggi non sono dei bozzetti ad acquerello, ma squarciano le pareti della stanza in cui vi trovate e vi fanno sentire l’odore delle erbe e del sudore dei somari del Mani, vi fanno sentire fra le dita la polvere di quella regione petrosa, vi dipingono gli occhi dell’azzurro delle grotte marine e vi mettono voglia di preparare uno zaino e andare. Il Mani è una regione affascinantissima. Geograficamente è questo: «Sulla mappa la parte meridionale del Peloponneso sembra un dente deforme appena strappato dalla gengiva, con tre penisole protese a sud come scheggiate e cariate radici. Il rebbio centrale è formato dalla catena del Taigeto, che, dalle colline pedemontane a nord nel cuore della Morea alla punta di capo Matapan battuta dalle tempeste a sud, si allunga per un centinaio di miglia. Per circa metà della sua lunghezza – settantacinque miglia sul lato occidentale e quarantacinque sull’orientale, per una larghezza di cinquanta miglia – il Taigeto si spinge affusolandosi nel mare», (p.27). Sul piano storico culturale il Mani fa venire in mente a qualunque greco quattro cose: «l’usanza della faida; i lamenti funebri; Petrobey Mavromichalis, duce dei manioti nella guerra d’indipendenza greca; e il fatto che il Mani, insieme ai monti di Sfakion a Creta, e per un periodo ai dirupi di Suli in Epiro, fu la sola regione di Grecia che strappò la propria libertà ai turchi e mantenne una precaria indipendenza», (pp.65-66). Difficilmente accessibile, da terra e da mare, fu una delle ultime regioni a convertirsi al cristianesimo, come detto resistette a lungo alla dominazione ottomana, fu a lungo porto sicuro dei pirati, spaccata in interminabili faide al suo interno, la regione del Mani diviene compatta e agguerritissima nella lotta d’indipendenza greca, fiermamente monarchica e avvolta ancora da un’aura alto medievale, fu una delle regioni più difficili da controllare da parte del governo centrale greco, regione poverissima e temuta da tutti gli altri greci, fitta di torrette di pietra da cui i capi villaggio si combattevano nelle loro lotte “d’onore”. Pagine piene di competenza intervallano il racconto del viaggio e si addentrano di volta in volta in argomenti diversi: con preparazione metrico-poetica Leigh ci descrive la tradizione dei lamenti funebri; con grande ricchezza di particolari ripercorre la carriera moderna di tutte quelle creature mitologiche come nereidi, centauri e satiri, ancora vive attive nel Mani; parallelamente a quest’ultimo argomento scorre il capitolo sulla commistione fra divinità pagane e santità cristiane: sembra quasi che in Grecia le divinità abbiano solo cambiato abiti e scelto dei nomi leggermente diversi, ma ancora abitino le messi, i torrenti e le onde. Tutte le nostre conoscenze di mitologia greca si risvegliano in un brivido, leggendo le pagine dedicate al Tenaro, la grotta marina ritenuta porta dell’Ade, nell’estremo sud della penisola, a Capo Matapan. E oltre all’antico, c’è la quotidianità della Grecia di metà Novecento: l’oziosa indolenza dei manioti che accolgono lo straniero coi rituali celebrativi della sacra ospitalità, i sonnacchiosi meriggi risvegliati da robusti bicchierini di rosso, le accalorate discussioni di politica, la Grecia e l’Inghilterra, Churchill e Venizelos. L’annosa occupazione di “passare il tempo” e le superstizioni che mescolano i Dioscuri alla Vergine. Questo libro è un’immersione poetica e profonda nel cuore del Mediterraneo, in quel suo ganglio contraddittorio che mescola conservatorismo rurale e cultura raffinatissima, lungo le storie dolorose di scontri e di incontri delle genti, coi loro caleidoscopici bagagli di immaginario. Uscito dalla penna romantica di Leigh, il Mani sembra un luogo in cui si sperimenta la compresenza di passato, presente e futuro: l’immobilità della sua afa meridiana può regalarci i sortilegi di una gorgone, può far sì che Istanbul torni ad essere greca oppure semplicemente, maledicendo il presente infame, può far sì che il tempo venga traccannato in un cicchetto di rosso.