Magazine Cultura
Premessa necessaria: per quanto mi sia sforzato di essere imparziale e politicamente corretto, esserlo non avrebbe senso. Non siamo qui per carezzare dei morbidi coniglietti. Siamo qui a parlare di Vita. Quindi, scenderò nella “mota delle opinioni” con quanta più franchezza e onestà genuina, priva di malizia alcuna come ben saprete.
“Quando frequentavo il liceo, anch'io ho scioperato un paio di volte. Eravamo disordinati e urlavamo slogan di generica polemicità, imitando i nostri coetanei che nelle città della penisola avevano già manifestato, noi dicevamo, contro il sistema. Ma sono state più frequenti le volte in cui decidevo, con pochi altri, di rinunciare allo sciopero e presentarmi in classe e sedermi al mio banco (sempre il primo perché ero una secchia incorreggibile) solo con la mia testa senza libri. A me piacciono le strade affollate di studenti, ma mi piacciono di più le aule affollate di studenti. Il sistema è la cattedra asservita e denutrita, e la disposizione dei banchi è già conformata in senso opposto alla cattedra. Eravamo pochi e reazionari, non perché obbedivamo al regime ma perché, allora non sapevamo dirlo, non credevamo nella rivoluzione che prima non fosse stata un'azione in senso opposto al sistema. E il sistema è contro di noi nelle aule, nelle strade non possiamo contrastarlo perché nelle strade diventiamo nessuno.”Quello che avete appena letto è uno dei commenti che più mi ha incuriosito, al riguardo. Antefatto: in questi giorni, con riferimento alla giornata odierna, a Catania, per via di una serie di questioni di assoluta gravità riconosciuta, hanno cominciato a prendere luogo alcuni fenomeni di subbuglio studentesco, se non fosse che ne ho una considerazione personale marcatamente contraria, potrei anche lanciarmi a dire che la ben nota “società civile”, persona virtuale e creatura ad oggi mitologica, usata da miti e leggende nostrane come madre di tutte le sciagure o, in tempi non sospetti e particolarmente benevoli, come divinità cui riferire ogni propria colpa e redimersi. No, non voglio sindacare le questioni. No, non si tratta di un becero e virtuale attacco verso idee contrarie o pratiche che ritengo essere fortemente dannose e depauperanti. Se volessi farlo, lo farei direttamente, come ho fatto altre volte. Andrei direttamente dalla persona e ne parleremmo. Non dico che la discussione non sarebbe ardentemente animata, certo, ma ne discuteremmo.
Fin qui, nulla di strano.
Vorrei riflettere con voi su un punto che ritengo particolarmente importante: se si utilizzano delle parole, le parole...non sono creature inanimate. Vivono. Respirano. Hanno una loro storia. Capiamole, quindi:
Manifestare. Manifestare, dizionario alla mano, qualsiasi sia la fonte, vi rimanda sempre ad un concetto: manifestus. Rendere manifesto il proprio pensiero o altrui. Incorporare. Rendere palese.
Protestare. Ancora una volta, dizionario alla mano, pro- dinnanzi, davanti a, testari/e, attestare, testimoniare, imprimere, dichiarare pubblicamente la proprio volontà, esprimere solennemente il proprio diritto contro chi l'offende.
Bene. Probabilmente non risulta chiaro perché parlo di tutto questo. Dico bene? Forse, risulto solo essere un noioso interessato al significato delle parole piuttosto che al loro utilizzo attuale.
Forse, manifestare, allo stato odierno delle cose, vuol significare imbracciare quattro slogan modellati su misura della condizione attuale, sì da poterla usare come eco al proprio ego, sbraitate con quante più voce possibile in un megafono che restituisce una voce fredda ma ingrossata. Attenzione, non una grande voce ma ingrossata. La differenza è notevole. Forse, manifestare vuol dire creare caciare scomposte e disordinate credendo che sventolare quattro bandiere ben bene alte tra la folla e usare quanto più si riesce ad accumulare in un gran mucchio di teste, magliettine, kefiah, spille, spillette affini, fumogeni e cori da stadio con i soliti ritornelli e ancora chiamarsi “compagni” e dirsi che “occorre lottare”. Non sono compagno e non lotto. Non faccio finta di lottare. Non faccio finta di essere compagno. Ognuno è libero di fare quel che vuole ma portatemi un solo ragazzino che indossa la kefiah “à la mode” cosciente di quel che fa e la mangerò in pubblico.
No, forse c'è qualcuno in quella massa ingorda di nulla che crede realmente in qualcosa. Che crede realmente nel potere dell'azione. Nel potere dell'agire sociale, direbbe qualcuno di più maturo. Peccato che qui, forse, quel qualcosa di eccessivamente maturo è qualche frutto mangiato da qualche ragazzino salutista che si confonde tra la massa informe.
No, non sono cattivo. Voglio difendere. Voglio difendere il potere e il diritto di manifestare. Oggi, a Catania, ho provato a capire per cosa si manifesta.
SCIOPERO GENERALE. Invoca un grande corteo. SCIOPERO GENERALE. Richiamano all'ordine ufficiali di cartone con stellette di zucchero convinti di guadagnare per strada la stoffa che serve loro per aumentare ed imbellettare le vesti. Sciopero! Contro l'Europa delle banche! Contro il governo! Per i morti nel mediterraneo! Contro la globalizzazione! Contro l'esserci contro! Contro!
Contro qualsiasi persona osa anche solo pensare qualcosa di avverso nei nostri confronti. Perché noi siamo giovani e dobbiamo lottare. Non sappiamo contro cosa ma dobbiamo lottare. Contro la globalizzazione! Salvo poi però essere tutti forniti di iPhone per fare l'ultima foto e #taggarci su facebook mentre manifestiamo contro la globalizzazione, Converse ai piedi, mangiare da McDonald o in qualsivoglia altra catena, comprare su amazon libri su come manifestare o affaruncoli del genere, non ultimo forse anche il megafono che giusto per intenderlo, è Made in China, consumare ettolitri di Coca Cola perché mi piace che il mio nome o il nome della mia ragazza o dell'amico sia sulla lattina. Si, direi che siamo sulla buona strada.
Ricordo momenti assurdi. Ricordo, ad esempio, durante una recente manifestazione della FIOM a Palermo, durante lo scorso anno, di un discorso abbastanza particolare in cui si proclamava la seguente “dobbiamo lottare contro questo governo che ci obbliga a partire in guerra per avere un lavoro”. Cosa dite? Sono esagerato? Dite davvero?
Er Pelliccia. Chi lo ricorda? Chi ricorda questo e tanti altri esempi? Quel che a noi importa è che All Cops Are Bastard, vero? Ti fa sentire parte di un branco. Parte di un giusto. Giusto che non sai bene in cosa essere giusto ma di certo giusto, quel giusto. Sbagliato.
Cosa e come sta cambiando il significato di protestare? Occupy Wall Street! Indigniamoci!
Ricordava bene Hessel, deceduto lo scorso anno.
Salvo poi correggere il tiro, perché come ha immediatamente specificato nel libretto successivo: non basta indignarsi, occorre impegnarsi.
Ecco, noi ci siamo fermati all'indignarsi. Forse siamo anche un attimo prima dell’indignarsi. Il problema è che quel qualcosa scomposto simile all'indignarsi, non andrebbe considerato nemmeno un tentativo di avvicinarsi all'idea superiore di “manifestare” o di “protestare”.
J'accuse! Chi lo ricorda? Quello è protestare. Parole forti e azioni concrete che hanno delle conseguenze. Che esistono. Usate a dovere. Con sapienza e perizia. Non gettate in un megafono. Il megafono in sé non insegna nulla. Non ti fai sentire. Le prime manifestazioni avvenivano in una maniera ben diversa, anticamente. Si riuniva la piazza, stava stretta stretta, nessuno fiatava e uno o più parlavano. La piazza voleva sentirti, non dovevi richiamarla per farti sentire. Le persone erano interessate. Non occorreva qualcosa per farsi sentire. Non imbrogliamoci, il megafono non serve per aiutare la voce a farsi sentire più lontani. Serve a fare caciara.
Aveva ben visto quando, occorre impegnarsi. E impegnarsi non vuol dire di certo usare qualche fumogeno e dare in mano a dei ragazzi una bandiera per fare un po' di scena. Le bandiere così come tutto quello che è in gioco in una manifestazione o in una protesta, sono simboli. Simboli forti. Simboli che devono essere rispettati. Così come pure di cosa si manifesta.
I più maliziosi, sindacalisti ed infiammati di voi, mi avranno già marchiato come qualsivoglia categoria la vostra fervida immaginazione sia riuscita ad immaginare. Ecco, avere alzato un muro. Cosa che ancora io non ho fatto. Vi chiedo quindi, questo muro, di tenerlo ancora abbassato per un po'.
Perché sono così duro? Perché noi abbiamo una responsabilità: quella del fare. E quella non aspetta i tuoi errori e i giochetti che spesso si usano per farsi conoscere. La popolarità non aiuta. L'autorevolezza non si costruisce su frasi scopiazzate da palcoscenici nazionali né tanto meno ha lo scheletro di beceri populismi mediatici. Smettiamola con queste comparsate del sabato mattina. Noi abbiamo bisogno di politica al lunedì mattino, al martedì pomeriggio e in ogni giorno, con la stessa intensità e serietà. Non seriosi MA seri.
Oggi, a Catania, ho visto orde di ragazzi e ragazze, non fare nulla. Passare dalla “manifestazione” al gradino in una scalinata. Passeggiare per strada leggendo un giornale. Profittare del tempo per mangiare un gelato o qualsivoglia. Scherzare con l'amico in strada a farsi notare dalla ragazzina di turno. Scambiarsi pacche sulla spalla o cazzotti amichevoli. Improvvisare partite di calcio. Fare qualsiasi cosa tranne una: manifestare.
Qualche tempo fa ho lanciato una provocazione con un caro amico, lo stesso, tra le altre cose, da cui ho ripreso il commento iniziale: qualcuno vuole fare qualcosa? Smettetela di starnazzare a partiamo. Andiamo in volontariato fin quando serve. Occorre aiuto. Non occorre non far nulla.
J'accuse! Diceva un qualcuno che la protesta sapeva bene cosa fosse. J'accuse celui que accuse!, rispondo io. Tutti sono capace di lanciare un J'accuse. Basta poco, io l'ho appena fatto. Pochi però sanno avere la responsabilità della guida di una Manifestazione e ancora molti, molti meno hanno una ben che minima idea di cosa significhi Protestare.
Forse, anche per questo, in Italia, ci troviamo dove ci troviamo.
Filippo M. R. Tusa
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