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E' il David Cronenberg assaporato nelle ultime uscite, il David Cronenberg del melò psicologico "A Dangerous Method", e del prolisso e apatico "Cosmopolis".
Sembra stanco, il regista, meno motivato ad affrontare i labirinti della sua mente ma assai giudicante, arrabbiato, intento a mettere alla berlina una società e un sistema (non solo quello cinematografico) in cui, evidentemente, fa sempre più fatica a sentirsi parte integrante. "Maps to the Stars" appare allora come il sequel non ufficiale proprio di "Cosmopolis", uno spin-off magari, con Robert Pattinson retrocesso da passeggero a conducente, e con la lente puntata sulle stelle, si, ma non splendenti, quelle maledette, spente o presunte tali di Hollywood, posto in cui è interamente ambientato.
Cronenberg prende lo script di Bruce Wagner e ne realizza una pellicola che è pregna come superficialmente vuota di contenuti e motivazioni, in cui è palese riscontrare una dura critica all'industria di cui lui stesso fa (o ha fatto) parte, ma ancora di più è palese rintracciare la pesante assenza e protezione di unione familiare, sostituita, a parer suo, da fame di rivalsa, successo e falso benessere. Psicologi, medicinali, motivatori da quattro soldi, sono tutti elementi che in "Maps to the Star" si danno staffetta l'uno dopo l'altro per sorreggere e tenere in piedi le anime lacerate e truccate di un universo alterato e deleterio, malsano e distante da quello con cui ognuno di noi sognerebbe di entrare in contatto.
Tuttavia, filosofeggiando un po', Cronenberg aggiunge alla sua personale visione un pizzico di quella meglio nota come sua pazzia, amalgamando alla pellicola momenti di mistero e di eccentrico surrealismo: visioni di madri bruciate vive e di bambini deceduti, tornati per disturbare ulteriormente le loro vittime già instabili (e niente questioni in sospeso da risolvere, mi raccomando, non siamo nel "Il Sesto Senso", vien detto) . Si tratta della nota più intrigante e elettrizzante, che permette a "Maps to the Stars" di non affondare nel troppo dialogo e nella troppa monotonia, staccandosi così da essi quel poco che serve, per resistere ed esistere pur non avendo un vero e proprio motore principale in grado di far decollare una sceneggiatura incorporea e scomposta.
Ma d'altronde è proprio questo che Cronenberg vuole trasmettere: la fine, la desolazione. Sta finendo tutto, dice più o meno, ad un certo punto (uno cruciale), il personaggio di Mia Wasikowska, come se si fosse arrivati ad un punto di non ritorno in cui, forse, anche parlare può servire ma relativamente. Visto che, probabilmente, di mettere apposto ora pare non avere voglia nessuno, nemmeno il regista, che con enorme disprezzo, lascia che sia il disordine a prendere il sopravvento. Lui, almeno, non è discutibile.
E la morte neppure, del resto.
Trailer:
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