Marchionne e il dio profitto. “La mia è una missione”
Creato il 25 ottobre 2010 da Massimoconsorti
@massimoconsorti
Al primo lancio di agenzia, ore 19 circa, la nostra reazione è stata: “Ma perché non te ne vai affa’na Panda a Belgrado?”. Poi invece, conoscendo un po’ il “gallo”, abbiamo atteso le 21 per sentire in che contesto SergioMarchionne aveva detto “Fiat potrebbe fare di più se potesse tagliare l’Italia”. Il senso del “vaffa” non è cambiato di molto, ma ne è cambiata la sostanza perché l’ad del Lingotto non è uno che spara nel mucchio né tantomeno esprime concetti a vanvera. Dunque. Nessuno pretende che Marchionne conosca i passati rapporti industriali tra la Fiat e l’Italia (meglio con i governi italiani che si sono succeduti dalla fine del fascismo in avanti), ma non possiamo tollerare che anche lui rimuova completamente un percorso storico che ha portato la Fiat a essere considerata per molti anni la vera “casa degli italiani”. Stride, nell’intervista che Marchionne ha rilasciato a Fabio Fazio ieri sera, il paragone con gli Stati Uniti di Obama e con la Serbia di Boris Tadic perché quello che Obama ha fatto per salvare la Chrysler e la UE per industrializzare la Serbia, l’Italia lo ha fatto con la Fiat per quarant’anni e senza pretendere, come nel caso degli Usa e di Bruxelles, la restituzione del prestito. Insomma, Obama ha anticipato a Fiat i dollari necessari per il salvataggio e il rilancio della più importante casa automobilistica americana mentre, dall’altra parte del mondo, la Comunità Europea ha finanziato per intero il processo di industrializzazione di una delle aree politiche più sensibili della ex Jugoslavia. “Finanziamenti a termine”, ha detto Marchionne e “l’impegno da parte della Fiat di restituirli”. A noi non risulta che la Fiat abbia mai restituito una lira allo Stato (anche se Marchionne ieri sera ha detto di averlo fatto) e che anzi, a ogni sentore di crisi l’Italia si sia fatta carico delle difficoltà dell’azienda torinese proprio perché consapevole dell’importanza che riveste per l’economia del paese. Ma Marchionne ha detto di più, e cioè che la “Fiat ha contribuito in modo decisivo alla modernizzazione dell’Italia” ed è vero, resta solo da vedere con quali soldi. A noi risulta, ad esempio, che fosse la Fiat ha dettare le regole e individuare i luoghi per la costruzione delle autostrade, a stabilire il costo della benzina e delle tariffe autostradali, a rifornire tutti i corpi dello stato di auto e mezzi (aerei compresi), a trattare con i sindacati i rinnovi dei contratti di lavoro. A noi risulta che per decenni la Fiat abbia goduto di tutti gli incentivi possibili e di tutte le defiscalizzazioni per gli stabilimenti industriali al sud e che lo Stato si sia sempre reso parte attiva nel dotarli di tutte le infrastrutture necessarie. D’accordo che negli affari la gratitudine non esiste ma rimuovere la storia come fosse una fastidiosa patina di polvere ci da un fastidio della madonna anche se non ci sorprende visto che Berlusconi continua a dire che l’Italia si è liberata da sola dai nazi-fascisti. E veniamo all’oggi. Il Thomas Edison della Fiat non è riuscito a inventare nulla per Termini Imerese, stabilimento chiuso e fanculo gli operai. Sta dipingendo i lavoratori di Pomigliano d’Arco e di Melfi come dei pericolosissimi anarchici mentre la Cgil e la Fiom come le loro centrali. In cambio di un aumento di salario che metta gli operai italiani sullo stesso piano dei colleghi tedeschi e francesi vuole che ci sia più competitività ma, nello stesso tempo, invoca una sorta di "polonizzazione" e di "serbizzazione" (400 euro pro capite al mese) della mano d’opera, c’è qualcosa che ci sfugge visto che delle due, una sola può essere la soluzione giusta. “La fabbrica polacca produce in un anno da sola quello che in Italia producono i cinque stabilimenti Fiat messi insieme”. Fermo restando che ci piacerebbe vedere come sono ridotti gli operai polacchi, Marchionne sta proponendo un ritorno al passato che, purtroppo, non è il sequel di una produzione hollywoodiana, ma la sua personalissima idea del rapporto datore di lavoro-operaio. E si badi bene. Dietro le parole di Marchionne, la cui prima laurea è in filosofia, non c’è nessuna posizione politica, nessuno schieramento a cui rispondere né al quale far riferimento, è semplicemente la sua “filosofia aziendale”, quella basata sui numeri delle statistiche (118 posto su 139 paesi per efficienza del lavoro e 48 posto per la competitività del sistema industriale) e su un’idea di produttività evidentemente mutuata dal Giappone uscito con le ossa rotte dalla seconda guerra mondiale. Marchionne, insomma, incarna lo spirito di sacrificio (“lavoro 18 ore al giorno”, forse è questa la ragione per cui non cambia mai il maglioncino), che dovrebbe portare gli operai a essere felici della loro condizione per il solo fatto che “costruiscono qualcosa, cosa oggi difficile”. Veder “crescere” un’auto assemblandone i pezzi, per Marchionne alla fine è come veder crescere un figlio, gli da le stesse emozioni. Sappiamo che, al contrario di molti suoi colleghi, il poliglotta Sergio è in possesso di una solida cultura umanistica (non è certamente Berlusconi). A volte questo significa leggere libri (anche se considerati i suoi tempi di vita e di lavoro non sappiamo come possa riuscirci). A volte significa aver letto i classici e averne colto il senso. Ma a noi più che Tolstoj o Dostoevskij, Dante o Manzoni o Melville sembra che Marchionne abbia letto molto attentamente Yukio Mishima. Proprio come il “samurai” giapponese suicida, Sergio ha nello sguardo una lucida follia che non si sa mai dove possa portare. Forse affa 'na Panda
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