Magazine Poesie

Marco Fregni: le infinite possibilità del raccontare

Da Narcyso
12 dicembre 2013

Marco Fregni, ALDILÀ DI OGNI ALDILÀ, Pendragon 2013

minia(260413152418)fregni
Dopo aver letto i bellissimi racconti di Marco Fregni, “Straordinarie visioni del tempo dopo il tempo umano”, (Giorgio Barberi Squarotti) mi viene spontanea una considerazione sulla solitudine della condizione umana: soli sono gli uomini, nella sconsiderata libertà che si ritrovano tra le mani di poter pensare tutto il pensabile; o attraverso ratio rigorosa, appellandosi alle leggi dell’universo, o per mezzo di una illimitata fantasia la quale nessuna legge riconosce come padrona.
Marco Fregni, dunque, demolisce ogni idea precostituita sull’ aldilà, data culturalmente o antropologicamente, presentandocene una per ogni racconto, diversa e altrettanto affascinante, supportata da un ragionare che utilizza come mezzo una splendente prosa illuminista, basata su un ferreo procedere per condizioni spazio-temporali bastanti a se stesse, autonome e non dipendenti dalle situazioni psicologiche dei personaggi, da proiezioni di desideri o di frustrazioni vissute in vita.
Marco Fregni, cioè, analizza le infinite possibilità che ha la mente, in mancanza di modelli razionali plausibili o minimamente attendibili sull’aldilà, di creare utopie fuori da precostituite immaginazioni, fuori da abitudini convenzionali: “Anche un lieve spostamento dello sguardo permetterà così altri e obliqui punti di vista, con i quali sarà possibile considerare che tutti i panorami (letterari) che ci sono stati offerti per secoli su ciò che ci attende (o non ci attende) oltre la morte, non hanno in sé, oltre al movimento della credenza che li infiamma, maggiori certezze di quanto qui verrà descritto. Soltanto all’interno di una simile libertà a queste narrazioni sarà riconosciuta una non minore probabilità d’esistenza rispetto alle varie cosmogonie proposte per millenni”, (Marco Fregni nella nota).
É chiaro, quindi, come ogni possibile immaginazione dell’aldilà – ed è questa l’intuizione maggiore, mi sembra, di questo libro sorprendente – sia ritenuta di ambito della letteratura; in questo senso, però, l’autore delimita il campo, escludendo, per esempio, il genere gotico, propenso a descrivere atmosfere legate al paranormale, mentre qui si tratta di delineare visioni architetturali indipendenti, più vicine ai territori del primo simbolismo inglese o a certo surrealismo, con connotazioni spazio temporali, quindi pittoriche, e allegorie filosofiche evidenti.
Spesso questo oltremondo vive in quanto creazione incessante, lavorio della mente che si pensa anche dopo la morte. L’esempio più bello lo troviamo nel racconto “La cella di Arìes”, in cui il personaggio si trova intrappolato in un cubicolo dotato di un’unica stretta fessura da cui si intravede una luce. La cella è in realtà l’unità minima di infinite celle che costituiscono un cilindro nel cui pozzo esse si affacciano, e questo luogo pensato è frutto dell’autonomo pensiero degli abitanti di ciascuna prigione – a parte quelli che vi hanno rinunciato, morti per sempre al proprio stesso pensiero, morte rappresentata dagli spazi neri presenti lungo tutto il corpo del pozzo.
Tema, questo del pensiero incessante, presente anche nel racconto “La fissità dello scriba”, in cui Kai, per tutta la vita e oltre, è implicato in un’operazione coattiva di copiatura, ed è proprio questo costruire discorsi per lettere, l’atto creativo nel suo farsi, a dare senso all’immaginario infinito di un oltremondo fatto di pensieri, parole e discorsi.
La teoria “scientifica” degli infiniti universi possibili, dunque, finisce qui per coincidere veramente con una pluralità di immaginazioni e il fatto che la questione riguardi la struttura di una dimensione spaziotemporale, da Einstein in poi, è dato dallo stato di ubicazione di questi corpi, sempre afflitti dal problema di doversi muovere, il che vuol dire acquistare un minimo di coscienza in più, vista la loro totale ignoranza e solitudine del nuovo stato in cui vengono a giacere.
Così Lucien, trovatosi improvvisamente defunto, cerca di raggiungere la presenza di un altro corpo, morto qualche ora prima di lui, e che si sta dissolvendo in quanto, in questo caso, la vita oltre la morte sembra durare quanto la durata dell’attività celebrale subito dopo il decesso – stai vicino al tuo corpo – è il messaggio, perché la morte vera, l’estinzione totale, quindi, di una qualsiasi tipo di memoria, deve ancora avvenire.
Questo movimento, lentissimo e faticoso, provoca a Lucien una grande fatica, così come ad Arìes nella sua cella, o al personaggio imprigionato tra le pieghe della materia: “dove sto transitando, con una lentezza che mai avrei inteso come umana, vivo una situazione dall’intensità incomparabile. Un’intensità legata in parte alle dimensioni del luogo in cui sono precipitato ma, soprattutto, al fatto che sono letteralmente stipato, schiacciato, compresso e oppresso tra miei simili”.
Non mancano, nel libro, riferimenti a sistemi di pensiero o intuizioni letterarie qui utilizzate, per esempio, nel racconto in cui i morti prospettano una loro ricompensa o punizione in un’altra vita che sarebbe poi la vita vera, situazione metafisica rovesciata, quindi – la morte desidera la vita e la vita desidera la morte come, mi sembra nel coro dei morti di Federico Ruysch.
Uno scenario che evoca un altro sistema filosofico, possiamo leggerlo nel racconto di apertura in cui il protagonista, Arthur Boyle, si immerge coscientemente nel sonno estraniandosi dalla realtà concreta, (specchio) attraverso una tecnica sempre più raffinata che gli permette lunghissimi periodi di allontanamento, finché, senza averlo previsto, si ritrova in un’altra realtà dove non c’è più distinzione tra sonno e morte. E questa morte, poi, ha, in effetti, tutte le fattezze del suo sonno.
Come non pensare, in questo caso, alle tecniche di estraneamento e separazione, in funzione meditativa e di allontanamento dalla conoscenza sensoriale, delle filosofie/prassi orientali?: raggiungere uno stato cosciente di sonno/meditazione attraverso un controllo, per vivere una vita parallela che è vita vera nello stato del risvegliato, di un buddha, appunto, consapevole dell’illusorietà di tutte le cose.
In questi racconti bellissimi, insomma, si legge di una continuità del dubbio, della dipendenza, malgrado l’estinzione, dalle leggi di un universo a noi sconosciuto, che continuiamo ad abitare e da cui continuiamo a dipendere. “Adesso che siete a conoscenza di tutti questi avvenimenti, che avete migliori informazioni rispetto a quelle che noi abbiamo avuto quando abbiamo iniziato il nostro viaggio, ebbene, vi scongiuriamo!, provate, lì dove siete, a riunire i vostri intelletti e date corpo a qualche intuizione che offra risposte alla nostra inquietudine. Inventate qualche teoria applicabile a questa Massima Incertezza affinché, quando ci raggiungerete, questo consenta anche a noi una maggiore lucidità”.

Sebastiano Aglieco
Brema, agosto 2013


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :