Questa premessa è vera in primis per il suo lavoro più celebre, Ju-On (The Grudge), probabilmente una delle migliori ghost-story di sempre; ma anche, a maggior ragione, per Marebito, progetto genuinamente low-budget e artigianale, che però surclassa, per forma e contenuto, tante produzioni ben più pasciute e blasonate.
Il protagonista della pellicola è Masuoka (un grandissimo Shin’ya Tsukamoto), giornalista free-lance, ma soprattutto persona sola e solitaria, ossessionata dall’idea dell’esistenza di una città, o delle sue rovine, nel sottosuolo di Tokyo (ispirazione derivante, con tutta probabilità, dalla maniacale lettura di Lovecraft e Shaver).
La svolta nelle sue infinite, identiche giornate avviene quando, per caso, filma un suicidio in metropolitana (in cui si coglie qualche omaggio al Buñuel di “Un Chien Andalou”). Al di là dello shock iniziale, osservando le sue riprese coglie qualcosa di strano, nel suidica e nell’area circostante, e recatosi a esplorarla trova un passaggio di servizio, che inaspettatamente conduce ad ampi, sconosciuti spazi sotterranei. E’ uno degli ingressi di questa città proibita, oppure delle lovecraftiane Montagne della Follia, territori familiari eppure alieni, in cui la percezione della realtà del protagonista si sgretola miseramente.
Completamente affascinato e plagiato dalla creatura, che gli da un’ulteriore prova dell’inconsistenza del reale, o meglio, dei suoi ben più ampi e labili margini, Masuoka asseconda la sua (di lei, di lui) sete di sangue, giustificata da un sacrosanto bisogno alimentare (grandissima la scena del biberon). E’ una livida discesa nell’orrore, che prima consuma la sua mente, e poi il suo corpo, in un’estasi amorosa nella quale immola se stesso per il bene della giovane vampira/cannibale.
Marebito (girato con una telecamera digitale in soli cinque giorni) è un prodotto cinematografico davvero ricco di riferimenti culturali (i già citati Lovecraft e Buñuel, ma anche Powell, Borges, Gaiman), che riesce, coi pochissimi mezzi a sua disposizione, a trascinare lo spettatore in un mondo ai margini del razionale, in cui le ortodosse dicotomie realtà/sogno, bene/male, vita/morte hanno perso la loro significatività. Rimane il deserto dell’esistenza, popolato da ossessioni personali, incubi collettivi, e dall’assoluta incomunicabilità e impermeabilità umana, che diventa vero e proprio rifiuto della vita e auto reclusione (Hikikomori, 引き篭り).
Cinema genuinamente e consapevolmente indipendente, povero di mezzi ma ricco di risorse alternative.
Poesia della paura, apocalisse culturale.
Grande Shimizu.