MARGIN CALL (Usa 2011)
Il contesto è all’incirca quello di Lei mi odia e Tra le nuvole: crisi economica, licenziamenti, uffici stracolmi di scatoloni di cartone, squali del capitalismo pronti a tutto pur di non andare in bancarotta e via dicendo. Eppure, nonostante il “blasone” dei titoli appena citati (George Clooney, Spike Lee… nomi grossi), l’attuale (post-11 settembre ma soprattutto post-2008) dissesto finanziario mondiale non era ancora riuscito a produrre un accettabile film di denuncia, dalle parti di Hollywood. Questo Margin call, dello sconosciuto esordiente J.C. Chandor, riesce nell’impresa. E ci riesce alla grande, con eleganza, ritmo, rigore, un cast stupefacente e la giusta distanza emotiva dai fatti narrati: che bisogno c’è, avrà pensato il regista-sceneggiatore, di dar vita a personaggi particolarmente grotteschi, crudeli o caricaturali, quando i fatti reali – o verosimili, come in questo caso – sono già di per sé più che eloquenti e sconcertanti?
Difficile da riportare, la trama di questa pellicola, i cui dialoghi sono tutti un parlare di complicatissima roba finanziaria. Eppure – tra derivati, tassi, stock option, flussi, percentuali e quant’altro – a emergere è un quadro chiarissimo, un quadro fatto di errori di valutazione, rischi non calcolati, azzardi finanziari, incompetenza professionale e darwinismo economico: a sopravvivere, nella New York bella, notturna e inquietante di Margin call (e del mondo reale), saranno soltanto i più forti, i più spietati, i più assetati di potere e denaro.
Se, a livello di contenuti, questo film altro non è che un realistico e fedele ritratto dell’inquietante situazione economica globale – sorta di versione narrativa delle tante inchieste giornalistiche uscite negli ultimi anni – a livello cinematografico Margin call riesce a compiere almeno un paio di piccoli miracoli. Innanzitutto perché, incredibilmente, non è noioso: provateci voi a portare avanti 109 minuti di film sull’alta finanza senza far addormentare la gente (magari all’ultimo spettacolo del mercoledì sera). Il ritmo di questa pellicola è incalzante, avvincente, teso, come se si trattasse di un thriller: c’è il morto (l’anonima banca metafora del capitalismo dove, in una sola notte, si svolge tutta la vicenda – a proposito: quanto mi piacciono i film che rispettano le unità di aristoteliche di tempo, luogo e azione!), c’è l’assassino (in questo caso gli assassini, al plurale: i dirigenti della banca, incompetenti e crudeli), l’arma del delitto (un approccio alla finanza senza alcun limite o regola) e il movente (i soldi, un sacco di soldi). L’altro miracolo compiuto da Chandor è l’aver saputo mettere in piedi un film corale in cui la presenza di molti celebri attori – nessuno dei quali vero protagonista – non sembra un’inutile parata di star hollywoodiane in cerca di gloria con un film “impegnato”. Al contrario: recitano tutti benissimo. Particolarmente interessante è, a questo proposito, la struttura gerarchica dei personaggi del film, la cui posizione all’interno dell’organigramma della banca rispecchia la fama degli attori che li interpretano: si va dallo sconosciuto Zachary Quinto (nella parte del giovane neoassunto che per primo si accorge della tragica situazione in cui si trova banca) alla superstar Jeremy Irons (direttore generale dell’istituto), passando per il mediamente famoso Paul Bettany e i quasi-divi Stanley Tucci e Kevin Spacey.
Bel film, questo Margin call. Preciso, quadrato, capace di affrontare un argomento delicato senza troppi fronzoli o inutili abbellimenti. Curioso che, almeno sugli schermi italiani, sia uscito in concomitanza con un altro film che, pur in maniera completamente diversa, affronta di petto il tema della caduta (o lenta morte) del capitalismo: non sarà autoriale e penetrante come il Cosmopolis di Cronenberg, ma l’esordio cinematografico di questo anonimo autore di spot pubblicitari è forse altrettanto importante, spietato e veritiero.
Alberto Gallo