Magazine Cultura
Tranquille ragazze, la vostra vista non ha subito degli abbassamenti e io non ho fatto nessun errore! Avete letto proprio bene, questa volta invece di pubblicare il racconto di una femminuccia abbiamo l’onore di ospitare un ragazzo! Devo ammettere che c’è di mezzo lo zampino di Lucilla, che mi ha presentato questo nuovo autore, incuriosendomi non poco!!Le novità però non finiscono qua, infatti, Pierluigi non è un esordiente come le precedenti scrittrici, ma ha già alle sue spalle delle pubblicazioni.Passiamo al racconto, molto diverso dai precedenti, perché in questo caso ci ritroviamo a viaggiare nel tempo. Vedremo quindi l’anno 1590 e l’anno 2007. Già da queste poche righe, si evince la buona preparazione storica dell’autore che ci permette di inquadrare molto bene il periodo di ambientazione. Per quanto riguarda la storia d’amore, essendo molto intrigante e misteriosa non voglio dirvi nulla, perché rischierei di rovinarvela!Come al solito ricordatevi di lasciare il vostro commento, ma non siate troppo malelinguose! Non vorremo mica far scappare Pierluigi che e' appena approdato sul blog, giusto?;)
SereJane
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MARIA D’AVALOS
Napoli 17/10/1590
“Ti amo.” La voce mormorò soffiando delicata tra i capelli. Le cinse i fianchi con entrambe le braccia sollevandola come piuma leggera. Tenero l’accolse tra le braccia, poi la depose delicatamente sul letto mentre lei gli arruffava i capelli, gli occhi scintillanti d’ardente passione.“Di più.” Ridacchiò. “Di più, di più, di più.” Continuò a ripetere ridendo come una bimba. Le slacciò il corsetto facendo saltare tutti i bottoni. Affondò il capo nell’incavo dei seni mentre ella arcuò la schiena. Sollevò il capo per un battito del cuore e rimase attonito dalla fulgente beltà. “Maria D’Avalos, sei la donna più bella ch’io abbia mai veduto.”Rise ancora, poi l’attirò a se, deliziata dalle tenere carezze. L’ampia camicia dell’uomo volò per aria. Petali di rosa.Lo schianto giunse agli orecchi come attutito, neppure l’udirono. I baci, le carezze si moltiplicarono ancora per lunghi battiti del cuore facendosi sempre più audaci. Ansiti, sospiri ed ancora baci. Una gioia come questa non dovrebbe conoscere mai fine.La porta cigolò lieve sotto la spinta della mano bianca e tremante. Si spalancò offrendo la vista dei due corpi lascivi. Il cuore divenne ghiaccio. Lo sguardo allucinato, le mani tremanti, Carlo Gesualdo, Principe di Venosa e legittimo sposo di Maria D’Avalos, estrasse da sotto il mantello un lungo stiletto. Il grido giunse inaspettato e Fabrizio si voltò disorientato cercando di capire cosa avesse spaventato Maria. La lama penetrò profonda nella gola ed il sangue sprizzò a fiotti sulle lenzuola e sul corpo della giovane immobilizzata dal peso dell’amante ora riverso su di lei. Carlo Gesualdo affondò altri due colpi sul corpo rovesciato, poi saltò come una furia anch’egli sul talamo continuando a colpire e colpire e colpire senza tregua alcuna. Le urla risuonarono terrificanti per tutto il palazzo San Severo riversandosi nella piazza sottostante. Il buio avvolse la giovane donna e quando riaprì gli occhi nulla fu più lo stesso.
Napoli 24/10/2007
“Ho freddo. “Il gemito è soffocato mentre attraversa Piazza San Domenico ed il terrore è puro quando vede uscire da Palazzo San Severo, il marito, Carlo Gesualdo. L’uomo ha il viso sconvolto, distorto in una maschera di allucinata follia e non si accorge della sua presenza. Si guarda intorno furtivo, poi, si muove velocemente sparendo tra gli stretti vicoli del quartiere storico. Il pensiero corre al giovane amante ed il gemito diviene più forte. Il randagio alza di scatto la testa fissandola impaurito. Trema incapace di muoversi. Unica supplica: un breve guaito.“Uè settebbellizze. Che te piglia, mo’!!!?”Il barbone scruta tra le ombre della notte ed il brivido che avverte improvviso sul collo pare come una gelida carezza. Alza il bavero del logoro cappotto. La pelle d’oca. Un crampo allo stomaco. Si china sul cane sussurrandogli dolci parole di conforto. “Nun t piglià appaura; nun sta cca pe tte! Magna, magna, mo.”Maria entra nel palazzo come spinta da un’irrefrenabile richiamo. “Fabrizio!” Sale le scale lentamente, attraversa l’ampio salone schiarito da un tenue raggio di luna. Ancora una rampa di scale ed un corridoio. Un gemito.Pochi passi fino la camera da letto. Solo pochi passi che paiono secoli perduti nello scorrere del tempo e del dolore che si ripetono eterni ed immutabili in un’agonia senza fine. Un lampo! Il rosso capezzale. Fabrizio giace in un lago di sangue, le membra scomposte e disarticolate, sotto, il volto ben noto: gli occhi sbarrati, i suoi, la fissano in un ultimo grido di raccapricciante follia. L’orrore è troppo, il dolore è troppo. Il grido nasce dagli abissi dell’anima tormentata diffondendosi agghiacciante tra gli anfratti dell’antica dimora.Il barbone stringe ora il bastardino cercando conforto nel calore del corpo tremante. “E’ fernuta, piccirì. Maria se ne gghiuta e mo ce ne iammo pur nui.” Il cane leva il capo e lo guarda con occhi imploranti. “ Ah piccirrì, so viecch’ e nun me fa bene durmì pa via; rimane ce ne iammo dint ‘a stazion ; eh picirrì…?”Pierluigi Curcio