Magazine Lavoro
Un uomo del sindacato, un uomo del mondo del lavoro, per la prima volta al vertice dello Stato. Sarà così se il voto nelle prossime ore premierà la scelta di Franco Marini come presidente della Repubblica, successore di Giorgio Napolitano. Tutte le possibili critiche su questa scelta, tutte le possibili prese di distanza non potranno ignorare queste stimmate. Nessuno potrà parlare di “casta” privilegiata, sfogliando le pagine della sua biografia. E molti nel sindacato, nella sua Cisl, ma anche nella Cgil e nella Uil e nelle stesse associazioni imprenditoriali, potranno in qualche modo guardare a quel nome come a una specie di riconoscimento. E’ l’Italia che lavora e produce, oggi in acuta sofferenza, che può trarre da questa candidatura un motivo di fiducia e speranza.
Franco Marini è stato per lunghi anni un protagonista del movimento operaio. Eredita nel 1985 la lunga e combattiva gestione nella Cisl di un capo carismatico come Pierre Carniti. Lui è di un’altra pasta, più attenta alle mosse del partito di riferimento, la Dc. E’ il 1985, sono settimane di polemiche e divisioni nel sindacato, dopo l’accordo separato su alcuni punti di scala mobile che vede la Cisl in contrasto feroce con la Cgil e soprattutto con il Pci di Berlinguer. Lui, il lupo marsicano, come lo chiamano gli amici abruzzesi, si mette di buona lena a ricostruire l’unità sindacale, con una Cgil diretta da Antonio Pizzinato. Quando anni dopo, nel 1991, lascia il sindacato, prende il posto nella Dc, di Carlo Donat-Cattin, leader della sinistra democristiana. Ha così inizio la sua seconda vita (anche se c’è chi ancora ricorda i suoi giovanili passi politici avvenuti nell’area socialdemocratica del Psdi). A differenza di altri sindacalisti Marini non si lascia travolgere dalle mischie politiche, mette in campo le sue riconosciute capacità dialettiche. E’ promosso così Ministro del Lavoro del VII Governo Andreotti. Siamo agli anni finali della prima repubblica ed eccolo a fianco di Mino Martinazzoli per assumere poi la carica di Segretario del Partito Popolare, fino a partecipare all'alleanza dell'Ulivo. E' coinvolto poi, con la Margherita, nella costruzione del partito Democratico. E diventa, nel 2006, presidente del Senato (in competizione con Andreotti, appoggiato dal centrodestra). E’ la seconda carica dello Stato (mentre alla presidenza della Camera va un altro ex sindacalista, Fausto Bertinotti).
Oggi siamo ad una nuova tappa. Come sarà la sua presidenza? C’è chi teme e già in queste ore lo dichiara che sia l’uomo chiamato a far da premessa a un futuribile “governissimo”, ad una riedizione di strane alleanze. Certo, l’uomo nato a San Pio delle Camere, provincia dell’Aquila, il 9 aprile del 1933, non ha mai nascosto le sue idee “unitarie”, ieri con gli ex comunisti, oggi con altre forze. Badando però alla sostanza dei problemi. E’ interessante ripassare certe sue dichiarazioni come questa alla vigilia della nomina di Napolitano come capo dello Stato: ”O si trova un presidente con un dialogo serio, o sennò neppure l’aiuto di Nostro Signore può consentire al governo di fare le cose necessarie e urgenti che deve affrontare”. E però avverte: “Se facciamo finta che non ci sia stato scontro duro e contrapposizione, allora la gente non ci capisce”. E ancora riferendosi a tempi lontani, certo, ma in qualche modo parenti delle nostre circostanze: : “Un voto in più può servire sulla fiducia. Ma se ci mettiamo a contare uno o due o tre voti, e poi non abbiamo un quadro politico certo per stabilizzare un rapporto più disteso, non si va troppo lontano. Non bisogna impiccarsi a un voto: il problema è politico e bisogna saperlo gestire”. E aveva concluso così questa conversazione con il “Corriere della Sera”, ripescata nel mio archivio: “Se sarò eletto presidente del Senato, farò di tutto per aprire una via di dialogo con le forze che rappresentano metà del Paese. Per evitare il blocco, per far funzionare il Senato. E’ più utile creare un clima in cui ci si contrapponga anche aspramente ma con lealtà piuttosto che puntellare con qualsiasi mezzo la maggioranza”. E’ la filosofia mariniana, ora sottoposta a nuove dure prove. Anche perché la geografia politica nel frattempo è radicalmente mutata.
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