Non rimpiango, non lacrimo, non chiamo
Transeuropa, 2010
Un complimento va indirizzato all’editore che è riuscito a mettere insieme due narratori di assoluta qualità. Essi hanno alle spalle una produzione già notevole a testimoniarlo, e leggerli uniti in una pubblicazione che li vede esclusivi protagonisti è stata una piacevole sorpresa.
Pardini è il primo a raccontare. Ci presenta Fidelco, un uomo che è stato anche in Argentina come emigrante, ed è ossessionato da una presenza ultraterrena, una donna, alla quale ha perfino chiesto, in uno dei suoi momenti di raccoglimento, se Dio esiste, ricevendone una risposta affermativa.
“Pioggia e neve gli erano oltremodo care. Gli sembrava lo proteggessero.” scrive Pardini, e così riconosciamo che questo è, ancora una volta, uno dei suoi personaggi amati, che ricevono direttamente dalla natura l’impulso a vivere.
È inverno, Fidelco ha deciso di restare solo sull’altopiano, si lascia andare ai ricordi, e sono ricordi di una natura selvaggia, che ha proprie regole alle quali corrispondono comportamenti che possono apparire crudeli. Quelli dell’aquila e del condor, ad esempio. Nel racconto troviamo paure e ombre, le stesse che innervano la natura e risiedono anche nell’uomo: “Il tempo, davvero, non esisteva.” Si ha la sensazione di qualcosa che tanto nelle azioni degli uomini quanto in tutto ciò che ci circonda non ha mai una sua fine definitiva. Non si muore mai completamente. È il primo racconto e ha il titolo: “Il nido dell’aquila”; il secondo s’intitola: “Broggi”, ed è un racconto lungo. Broggi è il nome di un toro deforme, più somigliante a un bufalo. Pardini ha già dedicato ad una bestia, un mulo, il titolo di un suo libro, “Giovale”. Il padrone del toro, Lionetto, “Alto, magro e di carnagione rossa”, e la madre di questi sono stati in manicomio.
Come vedete, una situazione forte e asprigna, caratteristica dell’autore lucchese, la cui scrittura vi corrisponde mirabilmente.
Frasi secche, brevi, dove l’uso di parole gergali è frequente e dà l’idea della vita di montagna, chiusa e ristretta. Il racconto ha una sua frenesia mitico-pastorale; quadri di vita che si inseguono tra il presente e il passato, a rappresentare un modello che avrebbe dovuto persistere nel tempo e non disperdersi.
Lionetto e Broggi sono due espressioni della natura selvaggia ed intima, una specie di eco, di turbine, di burrasca che marchia l’esistenza, due espressioni solitarie ed universali ad un tempo. L’altopiano, dove “non era ancora giunta la corrente elettrica”, è il regno dell’anima che non si piega, patisce ma si ribella: “Broggi lanciò un mugghio che sembrò scuotere la terra. Poi scese giù a gran corsa, travolgendo quanto trovava sul tragitto. Arrivato nello spiazzo dell’altopiano, caricò la croce di legno, spezzandola, e continuò a correre con un’eco di temporale tra prati e alture.”
Suoni, rumori, ombre, gli stessi silenzi, accendono e ravvivano superstizioni.
È un mondo che si impossessa del lettore, lo strega, lo trascina altrove.
Molte scene hanno un’efficacia sanguigna e cruda come quella che descrive l’incontro tra Lionetto e la vecchia prostituta sdentata, Anne Anne: “Così dicendo si buttò su la sottana, mostrando gambe bianche e ancora ben tornite. Se le tirava su piano piano, con mani piccole e scarne, le unghie smaltate.”
La fine di Broggi racchiude in sé la potenza biblica di uno schianto comandato da lontano: è la sola possibilità di domarlo e vincerlo.
Pardini ama Broggi. Lo si sente, e non posso dimenticare quanto scrisse a proposito di Lotar, il cane protagonista di un suo racconto contenuto nel libro: “Tra uomini e lupi” (vincitore, nel 2005, del Premio Viareggio – inverno): “Mi univa a lui l’oscurità di certi miei stati d’animo; come lui m’accadeva di diffidare degli esseri umani e di voler stare lontano dal loro mondo. Era l’interprete, fraterno e assoluto, della mia parte inconfessabile.”
La seconda parte del libro è dedicata ai racconti di Marino Magliani, nato a Dolcedo, in provincia di Imperia, giramondo ed ora stabilitosi in Olanda, in un paesino di fronte al mare, IJmuiden.
Anche lui, come Pardini, gran tempra di narratore.
Si comincia con “La parte”.
La Liguria non è così silenziosa come l’altopiano di Pardini. Ferve l’attività, si sente il rumore dell’autostrada.
Emiliano è venuto dalla Germania, dove lavora, per una vacanza nella sua proprietà, che detiene a mezzo con il fratello gemello Dino; vuole cogliere l’occasione anche per spartire una buona volta l’eredità, rimasta indivisa da otto anni (viene in mente “Il podere” di Federico Tozzi). Emiliano è un pigro, un istintivo, uno che si lascia trasportare da una modernità beota ed incosciente. Una modernità che la sua Liguria vive un po’ intorpidita dalla resistenza che la natura forte e aspra oppone agli uomini.
Mentre in Pardini gli uomini vivono in simbiosi con la natura, assimilandone le leggi, quasi sempre violente, in Magliani si avverte il patimento di una lotta affinché essa sia soggiogata. È la storia della Liguria, nata arcigna e ostile (“si penetrava in gole sperdute, popolate da tordi e merli, terre senza strada dove secondo Dino ci vivevano i cinghiali”), e a poco a poco piegatasi alla ostinazione dell’uomo.
Interessante, dunque, il confronto. In Pardini l’uomo si trova a suo agio sull’altopiano, vi si immedesima; in Magliani vuole invece piegare la natura; è in lotta con essa.
Pardini constata, registra e forse anche approva, è quasi connivente; Magliani ricerca, s’interroga, vuol capire. Come fa nei suoi romanzi. Il suo è il mondo dell’emigrante che parte, ma poi non può stare sempre lontano; ogni tanto ritorna, nota le novità, i cambiamenti. Prova malinconia: “Com’era possibile che con una terra così uno partisse…”
Il secondo racconto è intitolato: “Il controllo delle piante” ed è una specie di seguito del primo per alcuni personaggi che ritornano: Dino, la moglie Adele, Emiliano, e la saldatura dei due racconti rafforza la descrizione di un ambiente aspro e difficile, in cui c’è da combattere ogni giorno.
In Magliani, accanto alla nostalgia per ciò che era il passato, si accompagna sempre la sottolineatura del cambiamento, la cui inesorabilità fiacca ogni voglia di resistenza.
Credo che si annidi qui la differenza tra due rappresentazioni di una realtà che pure è in entrambi i casi dura e aspra. In Pardini la natura resiste e con lei resiste quell’uomo, tra i tanti, che più le assomiglia: nemici folli e ostinati del cambiamento; in Magliani, il mutamento prevale e vince su tutti, sugli uomini e sulla natura: “Parlava di tempi in cui le terrazze erano pulite come in mano, e i rovi, come una rarità, i cacciatori se li bisticciavano per aspettarci il tordo.”
Impressionante la ricchezza che riesce ad offrire l’affiancamento di due autori che sembrano partire dalle stesse radici.
Chi ha pensato ad un libro come questo ha fatto centro.
Sono narratori che traggono la loro scrittura da quei raccontatori di un tempo avvolti nel mistero e nella leggenda. Aspro e impudico come la natura, Pardini, pudico e dolente osservatore, Magliani: “un posto in cui di ligure non era rimasto nulla”.