Nella carriera di Mario Castelnuovo-Tedesco (Firenze, 1895 — Beverly Hills, 1968) la chitarra fu dapprima un incontro piacevole ed una stimolante curiosità; in seguito essa divenne Io strumento prediletto, tanto da sopravanzare, nelle preferenze del compositore — che peraltro non suonava affatto la chitarra — l’amato pianoforte.
La carriera di Castelnuovo-Tedesco traccia una parabola che — del tutto logica nella propria coerenza — espone l’autore a due opposte critiche. Negli anni giovanili, e fino al 1939 (quando abbandonerà l’Italia in volontario esilio per sottrarsi alle imminenti persecuzioni antisemite), Castelnuovo-Tedesco è un brillante e fortunato autore che, grazie alla sua raffinatissima cultura, scampa alle ristrettezze mentali del provincialismo italiano e si colloca — anche per quanto si riferisce allo stile di vita ed ai rapporti con il mondo musicale — in un’orbita decisamente europea: ciò gli attira le invidie e gli strali del sottobosco paesano nel quale si arrabattano le carriere di molti musicisti e critici italiani dell’epoca. In realtà, Castelnuovo-Tedesco era già allora un compositore tutt’altro che proiettato nelle avanguardie. Dopo la guerra, stabilitosi in California e divenuto cittadino americano, l’autore subirà invece le conseguenze dell’emarginazione decretata dall’avanguardia nei confronti dei musicisti considerati reazionari e, come molti altri maestri, finirà in una sorta di dimenticatoio dal quale soltanto recentemente la sua musica ha incominciato a riemergere: non è esattamente ciò che Segovia aveva profetato, ma in qualche modo gli assomiglia.
Nella prima parte della sua carriera, Castelnuovo-Tedesco scrive musica sotto l’evidente influsso dei maestri francesi e di Falla, oltre che del suo insegnante, Ildebrando Pizzetti, il quale, lodandone l’ingegno, lo mette in guardia da una troppo facile tendenza a comporre melodie di sapore ottocentesco. Ma forse ciò di cui Pizzetti maggiormente diffida — lui autore seriosissimo, animato da una tensione etica del tutto assente nell’allievo, il quale concepisce la musica come atto di spontanea e felice creazione — è l’ironia, è il gusto signorile del divertimento ed è il piacere “dilettantistico” (il termine va inteso nel suo significato più alto e in nessun modo riferito alla preparazione del compositore, che è di primissimo ordine) di comporre attingendo a piene mani alla propria cultura letteraria, pittorica e teatrale: Castelnuovo-Tedesco, poliglotta e frequentatore delle letterature europee fin dall’infanzia, mette in musica liriche dei maggiori poeti europei con schubertiana disinvoltura e compone ouvertures per orchestra ispirandosi senza timori reverenziali nientemeno che al teatro di Shakespeare, oltre a scrivere brani pianistici dai quali risulta chiarissima 1a sua profonda conoscenza del repertorio romantico, di Debussy, Ravel, Albéniz, Granados e Falla.
Il musicista è già maturo e stimatissimo quando, nel 1932, incontrandolo al festival di Venezia, Segovia gli chiede di comporre per chitarra. Ha così inizio una collaborazione che, come nei casi di Ponce e di Torroba, durerà fino alla morte del compositore, anche se, negli ultimi anni, Castelnuovo-Tedesco avvertirà qualche segno d’irritazione da parte di Segovia, al quale non piaceva che il compositore scrivesse brani anche per altri chitarristi!
Nelle opere composte tra il 1932 e il 1939, Castelnuovo-Tedesco è un autore che versa generosamente la propria “italianità” in un crogiolo stilistico nel quale confluiscono derivazioni francesi e spagnole; egli non fa abituale ricorso alla musica popolare (al contrario, è un compositore aristocratico e finanche un poco “snob”), ma la tradizione musicale italiana, dal settecento a Puccini, si respira nelle sue composizioni segnatamente in quelle chitarristiche degli anni ’30 in un complesso di riferimenti che vanno dal profilo cantabilissimo delle melodie all’esplicito intento di rivivere aspetti formali e stilistici cari ai maestri italiani. Così, lo stile boccheriniano della sinfonia viene sapientemente rifuso da Castelnuovo-Tedesco nell’arguto, graziosissimo primo tempo della Sonata per chitarra (Omaggio a Boccherini), le cui aree tematiche, legate da un nesso di continuità, si ampliano fino a rendere superfluo lo sviluppo centrale, e danno luogo ad una particolare forma di bitematismo bipartito; mentre, nel fantasioso ed umoristico quarto tempo, le maniere della musica spagnola di Albéniz e di Granados vengono rifatte in modo burlesco, svuotandone la retorica in una parodia toscanamente irriverente. Con la Sonata del 1934, Castelnuovo-Tedesco regala alla chitarra una composizione importante, di respiro europeo, collocata nell’insieme di tutta la sua produzione come uno dei lavori più significativi. Le Variations à travers les siècles del 1932, il primo pezzo chitarristico del maestro fiorentino, erano invece state concepite in chiave deliberatamente eclettica, come una specie di rapsodia sulle “maniere” musicali dal barocco fino alla musica da ballo americana, in forma di variazioni. Alla Sonata faranno seguito l’istrionico Capriccio diabolico (Omaggio a Paganini) del 1935 (brano non molto felice, che Castelnuovo-Tedesco cercherà di irrobustire dieci anni dopo, in una versione per chitarra e orchestra), la spiritata Tarantella del 1936 (meritatamente divenuta celebre), in cui il compositore scherza con la musica popolare napoletana senza impigliarvisi, e, a coronamento di quel primo periodo, lo splendido Concerto in re maggiore op. 99 per chitarra e orchestra (di cui diremo più avanti), composto nel 1939, alla vigilia della partenza per l’esilio statunitense.
Anche se Castelnuovo-Tedesco non avrà modo di rendersi conto della brillante riuscita del suo Concerto che nel 1947, anno in cui lo ascolterà per la prima volta nell’esecuzione di Segovia a Los Angeles, l’idea di «lavorare” i suoni della chitarra in un colorito tessuto orchestrale lo attrae fino ad indurlo a comporre, nel 1943, una mozartiana Serenade in cui, ridimensionate le proprie ambizioni solistiche, la chitarra dialoga con archi e fiati nel tono più disinvoltamente confidenziale. Con questa composizione — l’unica scritta durante il periodo bellico che comprenda la chitarra — Castelnuovo-Tedesco inizia la sua seconda epoca, la cui produzione non sembra registrare in toni cupi o pessimistici lo “choc” culturale patito dal maestro in seguito allo sradica-mento dall’amata Firenze e gli effetti del problematico trapianto in terra americana.
In realtà, rimanendo fedele alle proprie matrici culturali, Castelnuovo-Tedesco non trova stimolo alcuno nel nuovo ambiente, il quale si interessa a lui soltanto per la facilità con cui egli compone genericamente musiche da film, e l’isolamento — per lui che era sempre stato attivamente partecipe dei fatti della musica e della cultura — porta quale conseguenza una sorta di cristallizzazione stilistica. Non che, ripetendosi, egli svuoti la sua arte, ma le evoluzioni che stanno trasformando in Europa la musica, non trovano nella sua produzione eco alcuna, e anzi egli sembra deliberatamente arretrare, vincolandosi in modo sempre più stretto e rigoroso ad una tradizione della quale — sia spiritualmente che per il suo magistero tecnico — pare gli piaccia dimostrarsi erede titolato. Con questo atteggiamento, Castelnuovo-Tedesco dichiara la sua fede nell’umanesimo in cui è stato educato e prende ironicamente le distanze dall’ambigua volgarità del mondo del cinema, ma proclama anche la sua estraneità nei confronti delle speculazioni dell’avanguardia europea, rifiutandone il benché minimo riflesso nella sua musica. Noi crediamo che ciò sia dovuto più alla sua condizione di esule non rientrato in patria (se non per trascorrervi le vacanze) che ad una meditata sfiducia nei confronti di un tentativo di rinnovamento dall’interno del suo stile, e siamo convinti che, risiedendo in Italia, il maestro avrebbe operato una scelta meno rigida. l titoli delle sue composizioni chitarristiche post-belliche danno prova di tale autodifensiva “oggettività”: Rondò (1946), Suite (1947), Quintetto (per chitarra e archi – 1950), Fantasia (per chitarra e pianoforte – 1950), musiche nelle quali il compositore denota sempre più chiaramente la propria inclinazione ad affidare alla chitarra sola brani minori, ed alla chitarra concertante opere di maggior impegno for-male e di più alta espressività (come il Quintetto).
Nascono così il Romancero gitano per quattro voci miste e chitarra, su testi di Federico Garcia Lorca (1951) e il secondo Concerto per chitarra e orchestra in do maggiore (1953), due lavori fondamentali nella produzione chitarristica di Castelnuovo-Tedesco, i quali concludono la seconda fase nella parabola creativa del musicista (significativamente, anche la prima si era conclusa nel 1939 con un Concerto).
A questo punto, il compositore ha raggiunto il culmine della sua maturità stilistica. I lavori del periodo seguente, fino al 1960, sembrano composti sullo slancio precedente, e nulla aggiungono all’immagine dell’autore. Di tale periodo inerziale, il brano più significativo è la struggente Ballata dall’esilio — la celebre, angosciata ballatetta di Guido Cavalcanti — per voce e chitarra, in cui Castelnuovo-Tedesco, non per mimesi ma per sentita identificazione spirituale, fa proprie le dolenti confessioni del poeta che nell’esilio ha visto sfiorire la propria esistenza e che Dal 1960, Castelnuovo-Tedesco inizia — affidandosi prevalentemente alla chitarra — una sorta di autobiografia musicale (proprio mentre scrive quella letteraria, intitolata Una vita di musica), inoltrandosi in una ricerca contemplativa ed interiorizzata che non rivela più alcun intento descrittivo o paesaggistico, e che si rivolge soprattutto alla meditazione e alla memoria. I temi di quest’ultimo periodo sono quelli capitali dell’esistenza di un uomo giunto alla più alta e dolente saggezza. Ne troviamo l’espressione più efficace e diretta nel ciclo per voce e chitarra The divan of Moses-lbn-Ezra (1966), dove, servendosi dei poemi di un autore ebraico del tardo medioevo, il compositore canta con rassegnazione la propria amara visione del mondo e affida alla tenue armonia della chitarra il compito di sorreggere con discrezione una linea disadorna, essenziale, in cui scorre dolcemente la testimonianza di uno sconfitto; mentre prima, nel 1960, sulle delicatissime prose liriche di Juan Ramén Jiménez, Castelnuovo-Tedesco aveva dettato, in ventotto idilli per narratore e chitarra, il proprio commosso elogio dell’amicizia, il cui paradigma ideale non è però costituito da due esseri umani, ma da un poeta misantropo e da un somarello: in Platero y yo si espande per vie chitarristiche un melodizzare candido, quasi infantile, ritrovamento estremo di una sapienza pervenuta a visioni francescane.
Un umorismo amaro, a tratti mordace, allucinatorio, domina invece i 24 Caprichos de Goya per chitarra sola del 1961, ispirati alle acqueforti in cui il grande pittore spagnolo aveva raffigurato con spietata chiaroveggenza le superstizioni, i vizi e l’abissale ignoranza dell’aristocrazia, del popolo e del mondo accademico del proprio tempo. Castelnuovo-Tedesco, nei suoi Caprichos per chitarra, schizza ritratti meno impietosi e più ironicamente gentili — anzi, talvolta accorati — di alcuni personaggi della “commedia umana” da lui vissuta e, attraverso acute caratterizzazioni, fa trasparire i propri sentimenti nei confronti degli amici di dubbia fede che agiscono camuffati dietro le loro maschere (Nadie se conoce), dei falsi compositori che insegnano ciò che non sanno, maestri asini di allievi inevitabilmente asini, del tipico chitarrista cialtrone che intrattiene un pubblico di deliziati somari, fino all’inquieta, torbida interrogazione de El sueño de la razón produce monstruos, uno dei momenti più misteriosamente veri di tutta la musica di Castelnuovo-Tedesco.
In quest’ultimo periodo della sua vita, pur affidando ai cicli di cui abbiamo detto l’espressione del suo pensiero musicale più sentito, il compositore si concede ancora il gusto del divertimento e, per questo aspetto secondario ma mai sopito della sua arte, adopera il duo di chitarre, componendo, nel 1962, il ciclo di ventiquattro preludi e fughe intitolato Les guitares bien temperées, gigantesco “pastiche” in cui, rinserratosi entro schemi formali di tipo scolastico, l’autore se ne burla poi con somma disinvoltura, collocandovi un variopinto bazar con scampoli musicali d’ogni genere. Per il duo chitarristico, Castelnuovo-Tedesco comporrà nello stesso anno anche un brillantissimo concerto con orchestra.
Nel vasto e vario catalogo chitarristico accumulato da Castelnuovo-Tedesco in trentasei anni di carriera, dal 1932 fino alla sua scomparsa, spiccano i due concerti per chitarra e orchestra, il Quintetto per chitarra e archi e il Romancero gitano, opere destinate a rimanere nella storia della musica per chitarra.
Nel primo Concerto Castelnuovo-Tedesco si presenta in vesti neoclassiche, sia per l’adozione di una limpida forma settecentesca che per l’atmosfera apertamente evocativa che pervade la composizione da un capo all’altro. Sembra quasi che il compositore, ormai pronto al distacco dalla propria terra, si abbandoni ad un flusso di memorie mediterranee, le quali scorrono tra la grazia e l’eleganza del primo tempo, il lirismo gentile ed appassionato del secondo tempo, il piglio epico del terzo tempo, nel quale si evocano giostre e tornei. La chitarra è collocata con naturale proporzione accanto ad un’orchestra i cui timbri trasparenti risultano sempre adatti al dialogo con lo strumento solista.
Di tutt’altro carattere è il secondo Concerto del 1953, al quale l’editore ha apposto il titolo Concerto sereno (senza dubbio lo è, ma non più di tanta altra musica dell’autore). In questa partitura, più elaborata e complessa, predomina il vasto secondo movimento, una Sarabanda con variazioni in cui nuovamente l’autore si affida alla memoria, ma non tanto per un atto di evocazione affettiva — come nel primo Concerto — quanto nell’intento di celebrare l’immutabile (a suo modo di sentire) attualità della forma classica; tuttavia, pur nella sua magniloquenza, il neoclassicismo di questo brano non esclude momenti di slancio romantico o di appassionata teatralità, quale la conclusiva ripresa del tema, che si svolge in un clima scopertamente pucciniano. Il primo tempo — che più propriamente degli altri due si può definire “sereno” — è una contemplazione piuttosto rarefatta in cui il compositore svolge una preziosa ricerca di colore, suscitando atmosfere fiabesche alla Ravel. Dopo la gravità del secondo movimento, una lepida Filmi° campestre in do maggiore — con irridenti rintocchi di una campana tubolare in si bemolle — conclude in toni di giubilo la variopinta composizione, formalmente assai meno equilibrata del primo Concerto e, in un certo senso, un po’ pericolante a causa del suo eclettismo, ma ricca di spunti felici e di piacevoli trovate timbriche. La chitarra dialoga qui con un’orchestra più nutrita di quella del primo Concerto, e perciò il suo dominio sofistico è meno evidente, in specie nel secondo tempo: questo spiega la rinuncia di Segovia, che pure aveva insistito per ottenere dall’autore un secondo Concerto, ad eseguirlo.
Il Romancero gitano, costituito da sette pezzi composti su poesie di Garcia Lorca (contenute nella raccolta Poema dei conte fondo, non nella raccolta che barca intitolò Romancero gitano), consiste essenzialmente in una elaborazione polifonica a quattro voci miste di linee d’inconfondibile gusto ispanico, anzi, più propriamente “jondo”, forgiate da Castelnuovo-Tedesco sulla metrica dei poemi lorchiani, con una spontaneità che farebbe pensare alla citazione di melismi del “carne”. Il trattamento polifonico che l’autore sviluppa assomiglia a quello degli antichi madrigalisti, ed il tessuto vocale, pur elaborato, mantiene una trasparenza lieve e variata nel colore. La chitarra ha, in questa polifonia, funzioni talvolta individuali (quando introduce il carattere di ogni brano con il suo preludiare), talvolta collaterali (quando agita i suoi ritmi in un fiammeggiante sfondo armonico). La suggestione di quest’opera — unica nel corpus chitarristico di Castelnuovo-Tedesco — sembra affondare le sue radici in un remoto universo, dalla cui oscurità il compositore suscita memorie arcane, con atto che definiremmo di convocazione medianica non meno che di creazione musicale.
Il Quintetto del 1950 si colloca al vertice della musica per chitarra di Castelnuovo-Tedesco per la perfezione dei suoi quattro movimenti, nei quali la ricchezza delle idee e la proprietà degli sviluppi trovano realizzazione in un dialogo serrato ed equilibratissimo, che pone a confronto la scrittura armonica della chitarra concertante con lo stile quartettistico alla Schubert. P da sottolineare, in questo Quintetto, l’efficacissimo inizio del terzo tempo, che suscita fragili arcaismi di sapore medioevale, prima di irrompere con una danza del tutto e maliziosamente novecentesca.
Nella sua musica per chitarra, Castelnuovo-Tedesco ha sacrificato alla libertà ed alla spontaneità dello scrivere il calcolo riguardante la precisione e l’efficacia dei modelli strumentali impiegati. Convinto che, se si fosse addentrato nello studio minuzioso della tecnica chitarristica, avrebbe riportato una inibizione a carico della sua fluente vena melodica, egli ha preferito adottare una scrittura soltanto teoricamente giusta, la cui verifica è lasciata allo strumentista, al quale spetta il non facile compito di modificare — nella forma ma non nella sostanza — i passaggi ineseguibili o di scarso rendimento chitarristico. Per alcune composizioni — quali le Variations à travers les siècles, la Sonata e la Tarantella — ha provveduto Segovia, con la sua revisione strumentale e con la sua diteggiatura; altre composizioni, come il primo Concerto, sono state pubblicate come il compositore le ha scritte, cioè “grezze”; altre ancora, come i Caprichos, sono state pubblicate integralmente, ma con il sussidio di una versione pratica, aggiunta ove necessaria. Quest’ultima soluzione sembra aver incontrato il favore della maggior parte degli esecutori.
Da “Manuale di Storia della Chitarra Vol.2″
a cura di Angelo Gilardino