27.1.1929 – 3.8.2005
Nella tarda primavera del 1944 avevo poco più di quindici anni e vivevo a Vada, in Toscana, con la mia famiglia. I miei fratelli, tutti più grandi di me, erano militari: Geo era prigioniero degli inglesi in Africa e Marino stava cercando di ritornare dai Balcani dopo che il suo reparto si era disperso in Albania. Malgrado la guerra, la vita nei campi scorreva abbastanza tranquilla, e il campo di grano, l’orto e le mucche non ci facevano mancare il cibo, ma l’avvicinarsi del fronte stava cambiando la nostra situazione.
I due soli soldati tedeschi che erano di guardia sul mare non avevano mai avuto l’occasione di mostrarsi ostili. I fascisti facevano i prepotenti e cercavano manovali per le fortificazioni e le trincee tedesche che si stavano scavando a Rosignano; volevano costringere mio padre Pilade a lavorare là, ma al suo posto andò per pochi giorni un disertore siciliano che si era nascosto in casa nostra. In quei giorni c’erano stati anche dei bombardamenti degli alleati e, durante uno di questi, avevo rischiato di essere colpito mentre guidavo il barroccio presso il ponte sul Fine. In molti dei miei ricordi di quel periodo è presente il parroco don Antonio Vellutini, che era molto spesso in mia compagnia e frequentava solitamente la mia famiglia, che abitava vicino alla chiesa.
La Vera Storia della Bicicletta del Prete
Un giorno, nella prima metà di giugno, mi trovavo a Collemezzano nel podere dei miei parenti Donati per dare una mano alle donne nel lavoro dei campi, essendo rimasti ormai soprattutto anziani, donne e bambini, mentre gli uomini erano quasi tutti in guerra. Al mattino un grosso gruppo di soldati tedeschi diretto al fronte era arrivato alla fattoria Adorni di Collemezzano, in via Tronto, proprio di fronte al podere dei miei parenti. I tedeschi si erano fermati in attesa del buio, per riprendere la loro marcia solo di notte, come facevano di solito per non essere avvistati dagli americani.
Lungo quella via, quel pomeriggio, vedemmo passare don Antonio in bicicletta che pedalava verso Vada. Pensai che il parroco si fosse recato sulle colline per incontrare le formazioni di partigiani che si stavano organizzando nella zona e mi preoccupai un po’ quando vidi che una camionetta di soldati tedeschi, partita dalla fattoria, si era messa a seguirlo.
Dopo un po’ di tempo infatti don Antonio ritornò indietro a piedi. Non sembrava aver subito maltrattamenti, ma i tedeschi gli avevano preso la bicicletta dicendo che gliela avrebbero restituita alle cinque. Il parroco si fermò da noi fino a quell’ora, ma a quel punto i tedeschi dissero che la bicicletta sarebbe stata restituita solo alle sette. E quando arrivarono le sette, gli dissero di tornare alle nove. Era ormai evidente che i soldati l’avevano seguito attirati dalla bella bicicletta, che era nuova e con un magnifico cambio, piuttosto che per altri motivi.
Per me era ormai giunto il momento di tornare a casa, dove mia madre mi aspettava con ansia prima del tramonto e del coprifuoco, ma don Antonio mi chiese di aspettarlo per tornare a Vada insieme. Ad un certo punto cinque o sei soldati tedeschi si avvicinarono alla bicicletta discutendo fra loro e mostrando un certo interesse. Allora il carattere focoso di don Antonio si manifestò all’improvviso: senza riflettere si scagliò contro di loro e li spinse via e, quando gli dissero che non gli avrebbero mai restituito la bicicletta, la buttò a terra e ci saltò sopra più volte sfogando così la rabbia accumulata e rompendo tutto il telaio. Io avevo paura che i soldati reagissero violentemente e tirai per la tonaca il parroco riuscendo appena a trattenerlo, allontanandolo un po’. I tedeschi non lo picchiarono, né usarono le armi, forse anche per non rivelare la loro posizione alle truppe alleate, che si pensava fossero vicine. Comunque alcuni di loro caricarono ciò che restava della bella bicicletta su un carro da trasporto.Don Antonio, pieno di bile, ebbe una colica di fegato ed io lo portai dai miei parenti che lo confortarono e gli fecero un caffè. Ma appena si sentì un po’ meglio, uscì, deciso a riprendersi ciò che era suo. Fui allora testimone di una scena incredibile che è ancora viva nella mia memoria per la sua drammaticità: il parroco trovò il comandante tedesco da solo, dietro la fattoria, e lo aggredì tirandogli quattro o cinque pugni, mentre io cercavo inutilmente di calmarlo. Stranamente l’ufficiale non reagì ed io riuscii finalmente a portare via don Antonio tirandolo per la tonaca, prima che qualche altro soldato potesse accorgersi di cosa stava succedendo.
La Lunga Notte del Coprifuoco
Lo accompagnai di nuovo in casa dei miei parenti e infine riuscimmo a calmarlo. Quando infine si rassegnò e decise di incamminarsi verso Vada, ormai si stava facendo buio. Quasi subito due soldati ci fermarono e, puntandoci il mitra alla schiena, ci fecero camminare per circa duecento metri nella direzione opposta, verso le colline. Don Antonio mi sussurrò: “Mario, quando ti faccio un segnale buttati giù! Buttati nella fossa!” Ed io, cercando sempre di calmarlo, risposi: “Aspetti … vedrà che non ci fanno niente.” Prima che potessimo dire o fare altro, i due soldati si dissero qualcosa, ci dettero uno spintone col mitra e tornarono indietro, lasciandoci soli e impauriti.
Ripartimmo attraverso i campi raggiungendo la via Pisana, dove incontrammo un’altra pattuglia tedesca, una quindicina di soldati in marcia. Ormai era notte e noi continuavamo giù per i campi, attraverso la zona dove gli inglesi avrebbero poi costruito il campo di aviazione. Don Antonio ogni tanto si fermava sul ciglio di un fosso, per le fitte al fegato. Arrivammo così verso la stazione ferroviaria che erano circa le tre del mattino, badando di non farci vedere da nessuno perché c’era il coprifuoco. Il parroco si fermò a dormire presso una famiglia alla periferia del paese ed io proseguii da solo, col cuore in gola, nascondendomi fra un platano e un altro lungo il viale, finché arrivai a casa, dove trovai mia madre Ghisola in lacrime, convinta ormai di avermi perso per sempre.
La Battaglia in Mare
Qualche giorno dopo avvennero in paese i fatti drammatici che tutti conoscono. Una mattina uno stormo di aerei americani che volava verso sud avvistò al largo di Vada tre zattere tedesche dirette all’Elba per trasportare rifornimenti. Mi trovavo sulla spiaggia insieme ad altri vadesi e vidi mitragliare ed affondare le tre imbarcazioni. Poco dopo arrivò un gruppo di tedeschi con camionette e moto; i soldati si misero a cercare delle barche per salvare i superstiti, ma tutte le barche erano state messe al sicuro in paese o nelle pinete. Ne trovarono solo una, piuttosto malridotta, nei pressi dell’attuale scuola materna, e ci costrinsero a spingerla in mare a suon di frustate. Quella barca era davvero in cattive condizioni e piena di falle; appena fu in mare si riempì d’acqua, scatenando l’ira del comandante tedesco, convinto che si trattasse di un nostro sabotaggio.
Nel frattempo altre imbarcazioni erano partite dalle spiagge vicine ed avevano riportato a terra alcuni superstiti. Ricordo che uno stava in piedi sulla prua, ma cadde morto appena sbarcato. Terminata l’operazione di soccorso, i tedeschi se ne andarono, ma prima l’ufficiale ci disse in un poco corretto, eppure comprensibilissimo italiano: “Ritornare, bruciare tutto il paese e ammazzare tutti!”
L’Eccido di Vada, 20 giugno 1944
Ci fu quindi grande paura a Vada, quando, la sera del 19 giugno 1944, all’imbrunire, un camion militare passò rapidamente ed i soldati spararono diverse raffiche di mitra. All’alba del giorno dopo i tedeschi tornarono in forze, occuparono il paese e fecero suonare le campane per radunare tutti gli abitanti in chiesa. Rimanemmo tutti chiusi in casa, dove mio zio Vitaliano, che era uscito nell’orto a raccogliere chiocciole, fu invitato a nascondersi da un soldato tedesco che forse voleva salvarlo dalla rappresaglia.
Poco dopo i tedeschi cominciarono a rastrellare il paese casa per casa, facendo uscire tutti gli abitanti e radunandoli in piazza, dove adesso ci sono le palme. Presto arrivarono altri camion di soldati e, da questi, furono scaricate quattro o cinque mitragliatrici che ci furono piazzate davanti. Rimanemmo tutti così, immobili, con le mitragliatrici puntate contro per quasi tutta la mattina, finché don Antonio Vellutini parlò con il comandante, denunciando se stesso come unico partigiano del paese.
Nel frattempo i tedeschi avevano fatto portare in piazza i cadaveri delle quattro persone che erano state uccise durante il rastrellamento e li avevano appoggiati a terra accanto al fortino. Un cartello scritto in tedesco li qualificava come “banditi ed assassini di soldati tedeschi”. Ci fecero sfilare di fronte ai morti, obbligandoci a sputare su di loro, ma, alla fine, fummo liberi di ritornare a casa.
Per tre giorni i morti rimasero lì finché io stesso andai, insieme ad altre persone e al becchino, per portarli al cimitero con il barroccio. Quello stesso barroccio che pochi giorni dopo ci fu requisito dai tedeschi in ritirata e che fu poi ritrovato, dopo il passaggio del fronte, nei pressi di Belora.
Mario Pelosini