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Il limite del meraviglioso?
Tavola 19 de I Nuovissimi X-Men #1. Hank McCoy, Bestia dall’aspetto felino, con manto blu reale, è tornato nel 1963 e tenta di spiegare agli X-Men di allora (al se stesso più giovane, a Scott Summers che ancora crede nei principi del Professor Xavier, a Jean Grey, che non ha ancora scoperto le proprie capacità telepatiche, e, soprattutto, è ancora viva, a Bobby Drake e Warren Worthington III) che cosa sta accadendo nel suo presente, il loro lontano futuro. Momento intenso, da dove scaturisce il seguito della vicenda.
Ebbene, in quell’istante, in cui il tempo si attorciglia su se stesso e le visioni del mondo e le speranze dei giovani X-Men collidono con il futuro annunciato da Hank, Bobby fa dello spirito (“Mi sa che hai litigato con il rasoio, allora“. Poi, nel seguito dell’incontro, sul numero successivo: “Credo di parlare a nome di tutti quando dico: prego?!“; “È troooppo noioso per scatenare l’Apocalisse“).
La domanda è: dove sono i limiti del senso del meraviglioso, dove il suo spazio, se a un personaggio (anche a uno come Bobby!) si concedono battute di questo tipo in un momento di tensione estrema? Battute inutili, che incrinano l’atmosfera. Il silenzio, gli sguardi pieni di sospetto (complimenti a Stuart Immonen per l’espressività dei volti) erano tutto ciò che serviva. Riempire quel silenzio con parole è fuori luogo. Peggio, disperde le tracce di qualsiasi senso potenziale: è solo un rassicurante ammiccamento.
Quella scena è emblematica: nei primi due episodi della propria gestione de I Nuovissimi X-Men, Brian Michael Bendis sembra assillato da una sorta di horror vacui, che lo spinge a riempire le scene di parole, e mostra di dover trovare ancora una misura nel narrare. Incappa in tanti piccoli sfasamenti: dalla scena iniziale, dove Hank sembra morire in preda alle convulsioni, ma poi riesce a ingannare tutti i suoi colleghi sulle proprie condizioni; al primo intervento di Scott, Magneto ed Emma Frost per salvare Eva (il terzetto entra in scena due volte: perché? Il sospetto è che il motivo sia la spettacolarità). E che dire della vignetta che chiude il secondo episodio? Che bisogno c’è di far parlare Wolverine?Non bastava quanto accaduto fino a quel momento?
Non bastavano la tristezza, lo straniamento così evidenti nel suo volto?
Dettagli? Forse, ma queste incertezze lasciano perplessi: come possono arrivare sulla tavola? Piuttosto, esse sembrano sintomo/risultato della scelta di valorizzare l’azione, l’effetto plateale, gli snodi narrativi, rispetto all’atmosfera.
La scelta del linguaggio sembra considerare un lettore ideale sostanzialmente analfabeta, incapace di estrarre significati e suggestioni da ciò che non è dichiarazione esplicita. Un ritorno al passato, al lontanissimo passato, quando si spiegavano i cambi di scena con le didascalie. Immaginando che Bendis sappia quello che fa, l’inquietudine nasce proprio dall’assunta bassissima competenza del lettore modello e dall’acquiescenza dell’autore a quel livello.Andare a ripescare gli X-Men originari apre sicuramente molte porte all’intreccio e alle relazioni fra i personaggi. Avremo sviluppi delle relazioni fra Wolverine e Jean (viva!); sarà probabilmente quest’ultima, più che il sé-più-giovane a far riflettere Scott? Avremo un confronto fra ideali di oggi e di ieri, che riproporranno l’eterna contrapposizione fra la visione di Magneto e quella di Xavier? Chissà, forse avremo anche Xavier che torna dalla morte, perché in fondo questo è il destino dei simboli: che non muoiono mai veramente.
vremo la riflessione su che fine hanno fatto i sogni che muovevano gli Stati Uniti della Nuova Frontiera? Magari Bendis metterà in evidenza che quei sogni erano già marci allora, quando accanto alla Lotta per i Diritti Civili e alla Corsa allo Spazio, stavano La Baia dei Porci e il Vietnam?
O avremo lotte, pose plastiche (paradosso: l’efficace resa plastica delle figure di Immonen si muta in una sorta di condizione di azzardo morale), personaggi che dichiarano ogni moto del proprio animo, messi sulla tavola con la targhetta “sto soffrendo”, “crisi di coscienza”, “confronto con il proprio doppio”, per non lasciar nessun lettore indietro, per essere sicuri che nessun lettore cresca, acquisendo un linguaggio minimamente sofisticato?
Riguardo alla mera superficie degli eventi, Bendis ha preparato la possibilità di tanti accadimenti e tensioni a venire, ma deve confrontarsi con lettori che hanno visto più o meno tutto e per i quali tutto può accadere, senza che sorprenda troppo. Il vero punto è: perché raccontare questa storia? Quale ne è il senso?
In questi primi due numeri, non è possibile intravederne indizi. Ma è su questo che è doveroso misurare Bendis.
Tutte queste voci nella mia testa
Il racconto di Simon Spurrier parte da una base/pretesto più semplice: la mente di David Haller (Legione), figlio di Charles Xavier e Gabrielle Haller, è frammentata in centinaia di personalità e c’è quindi una combinatoria assai elevata a disposizione per la costruzione d’intrecci. Il pericolo è naturalmente quello che lo scrittore riduca tutto a un infinito scontro fra i demoni interiori e fra loro e l’esterno, in una sorta di gioco meccanico e pretestuoso, con velleità di approfondimento psicologico che non fanno altro che richiamare luoghi comuni, sull’esempio di quanto proposto da Dennis Hopeless in Avengers Arena.In questi primi due episodi, Spurrier mostra uno stile a tratti misurato, come nell’uso delle didascalie, o nell’immagine finale del secondo episodio, dove evita l’enfasi gratuita. Tuttavia, il modo grossolano in cui mette in scena il confronto fra David e gli esseri umani (poco più di quattro tavole che sintetizzano, in modo a dir poco didascalico, un percorso di formazione) lascia più di una perplessità sullo sviluppo possibile. Se il lettore di riferimento è l’adolescente, come dichiarato esplicitamente in una battuta (a questo si riduce l’occhio metaletterario, quando è semantizzato? A un ammiccamento, per rassicurare sul fatto, che, sì, siamo fra noi, al centro della nostra zona di conforto), la speranza è che Spurrier miri a metterlo a disagio, non tramite scene di plateale impatto visivo/emozionale e pseudo psicologismi di maniera, ma attraverso la messa in scena di una lotta per raggiungere un equilibrio interiore fra le proprie pulsioni, esplorando in questo modo un tipico percorso di maturazione da adolescenza a maturità.
Il tratto (volutamente? efficacemente?) sgraziato di Tan Eng Huat ben supporta il racconto: si mantiene costantemente sul limite del caricaturale e per questo evita la banale gradevolezza, che tenti lo sguardo. Nel sembrare alludere a una sorta di regime di transizione fra realtà diverse, ben comunica il disorientamento di David nel dividere ciò che è dentro la propria mente da ciò che è fuori, efficace sintesi del motore degli eventi di X-Men Legacy.
Abbiamo parlato di:
I Nuovissimi X-Men #1
Brian Michael Bendis, Stuart Immonen, Simon Spurrier, Tan Eng Huat
Traduzione di Fabio Gamberini
Panini Comics, Luglio 2013
80 pagine, spillato, colori – 3,50 €
ISBN: 977228245300330001
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