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Marylin Manson – Born villain (2012)

Creato il 03 maggio 2013 da Salcapolupo @recensionihc
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Tag: 2012, industrial, musica-M

BornVillain
Born villain“, “nato cattivo”, carogna, delinquente, canaglia. Insomma, il senso è quello: l’ottava uscita targata Manson, venuta alla ribalta con il brano “No reflection“, esprime nuovi/vecchi concetti in chiave oscura, violenta e misantropica, legando sapientemente/furbescamente l’elettronica più oscura e moderna con i riff cattivi e avvelenati dei tempi delle produzioni di Trent Reznor. La prima osservazione che viene da fare è che, nonostante il disco non sia affatto una riedizione di dischi “pacifici” alla Depeche Mode, certe sfuriate dei tempi andati (“Angel with the scabbed wigs“, per intenderci) sembrano non essere più nelle corde di un artista. Un musicista che, di fatto, ha saputo proporre il proprio genere in modo forse non sempre riuscitissimo in passato, ma sempre decisamente teatrale ed introspettivo e, per questo, meritevole di attenzione.

Una caratteristica costante della produzione di Manson è legata ad una sorta di “tacita convenzione” giornalistica che, a mio parere, parte da un presupposto subdolo: parlare di tutto, ma mai entrare nel merito della musica. Troppo difficile, forse, parlare di Antichrist Superstar e degli eccessi evidenti che, a livello concettuale e sonoro, certamente esso contiene: molto meglio addentrarsi a sparlare dell’ aspetto orrorifico e/o sessualmente ambiguo di Brian Hugh Warner, oppure citare le accuse ingiustificate, che gli piovvero addosso come una sassaiola, all’epoca del massacro della Columbine. Tutto questo è normale, è ovvio, è praticamente convenzione comunemente accettata dai più, salvo poi specificare in modo beffardo, come ha fatto un articolo del Corriere della sera, come “il lupo sia diventato agnello“. A questo punto pero’ qualcosa non torna, visto che sembra che questo artista non vada mai ad incastrarsi nei gusti di nessuno, mentre l’affluenza ai suoi concerti dimostra semmai l’esatto contrario, per la cronaca. Il dubbio che il personaggio debba quindi, per comoda pigrizia di certi irritanti chic, essere smantellato a priori qualsiasi cosa faccia, è a questo punto – e secondo la mia breve analisi – decisamente fondato. Molto più comodo ridurlo a poca cosa – quando “Born villain” mostra con certezza quasi matematica che i Marylin Manson poca cosa non sono di sicuro – citandone di striscio gli eccessi visuali o, al più, il fatto che vari fondamentalisti cristiani da anni ne seguano le performance, neanche fossero i più consumati fan del genere. Tanto comune etichettarlo come la rockstar anticristiana e genericamente eccessiva per eccellenza quanto, allo stesso modo, è raro che qualcuno dei critici in questione si azzardi a citare il seminale (ed importantissimo musicalmente) “Smells like children“: insomma, l’importante quando si parla di Manson è che non si parli di musica.

Faccio questo lungo “spiegone” perchè, pur non essendo mai stato un fan incrollabile del Reverendo, trovo da sempre Manson archetipico – cioè “meglio rappresentativo per gli ingenui“, o chi non vive la “scena” dall’interno – di un mondo, quella della cosiddetta musica estrema, che tanti superficiali frettolosamente etichettano come “metal“, “punk” (a sproposito, s’intende), “industrial” (molto più raramente). Questi discorsi andrebbero spazzati via una volta per sempre, concentrandosi ad ascoltare un po’ meglio un piccolo capolavoro come “Born villain” che, per inciso, richiama apertamente i  fasti dei primi due album. Certo non mancano episodi sottotono (probabilmente il secondo singolo “Slow-mo-tion“, neanche a dirlo), ma il succitato “No reflection” – una scossa di adrenalina come da tempo non si sentiva in giro – l’opener velenosa “Hey Cruel World” e più in generale l’atmosfera tenebrosa e moderna del lavoro lo hanno reso probabilmente una delle uscite più interessanti in ambito rock del 2012. Senza contare le influenze, disparate, tantissime, sterminate e difficili da elencare per intero: ad esempio in “The gardener” Manson sembra citare apertamente i Christian Death, nella splendida traccia elettronica di “Children of cain” delira in modo sofferto e cadenzato come ha fatto scuola nel passato, e si concede ulteriori sfaccettature acustiche all’interno della title-track. All’interno di “Breaking The Same Old Ground“, poi, Manson trova il tempo di mettere in discussione introspettivamente il (suo?) mondo – o se stesso, se preferite – attraverso un enigmatico testo (“when I was out looking for something new“) che sembra rivolgersi ad un’amata che, in realtà, non è altri se non la morte o l’oblio (“I’m in love with oblivion I am owned by death“).


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