Qualche settimana fa, mentre leggevo il giornale, mi sono imbattuta in un articolo curioso, di un certo Paolo Mastrolilli (inviato a New York, beato lui), che raccontava la storia di una donna americana, tale Phyllis, famosa per aver scritto tre libri e per essere critico culinario presso il Washington Post.
La donna in questione aveva fatto richiesta per essere ammessa alla facoltà di Design di Harward per studiare al Department of City and Regional Planning, nel 1961. Ma l’Università l’aveva liquidata in maniera semplicistica scrivendole più o meno: “Come farebbe a crescere dei figli e lavare le mutande di suo marito, essendo iscritta ad Harward?”.
Il professore che scrisse la lettera di rifiuto, un certo Doebele, parla di spreco di tempo ed eccessivo sforzo dedicato all’istruzione. «Ci spieghi come pensa di conciliare la vita professionale con i doveri verso la famiglia».
Ecco, io gente così la punirei. E non con la fustigazione, sarebbe troppo facile. La punirei facendole scontare secoli di frustrazioni e complessi di inferiorità.
Il maschilismo di Harward è, naturalmente, figlio del suo tempo, ma mi ha fatto sicuramente piacere sapere che Phyllis, a distanza di 52 anni, si è vendicata di quella lettera pubblicando un articolo sul Post in cui esordisce così: «Come aveva previsto sono stata molto occupata».
La cosa che mi fa rabbia è che come Phyllis, un’infinità di altre donne saranno state “avvertite” della perdita di tempo che avrebbe costituito dedicarsi agli studi. La scrittrice dice di essersi scoraggiata e di aver abbandonato gli studi (e, col senno di poi, di aver avuto un colpo di fortuna in seguito alla mancata ammissione).
Attenzione, però: gli anni ’60 di Harward non sono poi tanto lontani e io mi batterò all’infinito perché finché ci sarà una donna che impiega il tempo destinato a far qualcosa per sé, a lavare le mutande ad un uomo, continuerà la perpetuazione del potere maschile!
P.s. Ve l’avevo detto che non sono in grado di parlare lucidamente di un argomento come questo. Voi che ne pensate?