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M*a*s*h

Creato il 24 novembre 2014 da Justnewsitpietro

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M*A*S*H
Il film cult di cui vi voglio parlare questa settimana è nuovamente a colori. Tratto dal romanzo omonimo di Richard Hooker, ambientato in Corea, come affermano i titoli di testa, ma con palesi riferimenti al Vietnam – per un fatto di censura, aggirata, l’avrete capito, sagacemente dal regista -, è una commistione di generi: commedia demenziale, commedia drammatica, guerra.

La questione importante è: “Si può fare un film antibellico usando l’umorismo?”. Ebbene, M*A*S*H di Robert Altman del 197o ce ne dà dimostrazione. Mobile Army Surgical Hospital, ossia Ospedale Militare Chirurgico da Campo, è l’unità dove si svolge la vicenda. Un gruppo di medici militari capeggiati dal Capitano Benjamin Franklin FalcoHawkeye nella versione originale – Pierce (un giovane ma già eccezionale Donald Sutherland) e Capitano John Francis Xavier Razzo JohnTrapper John – McIntyre (Elliott Gould, che lavorerà con Altman altre due volte: ne Il lungo addio, 1973 e ne I protagonisti, 1992) sono restii a rispettare le regole del campo – probabilmente per aver visto troppi sprechi di vite – e senza freni quando si tratta di farsi scherzi, dispetti e amoreggiare con le infermiere. Chi viene presa di mira è il Maggiore Margaret O’Houlihan (Sally Kellerman) soprannominata Bollore dopo che, nel suo amplesso con il Maggiore Frank Burns (Robert Duvall) diffuso attraverso l’altoparlante, diceva di essere… “tutta un bollore” (in inglese era Hot Lips. “Oh Fred, my lips are hot!”). Tra goliardate, partite di football, trasferte varie, tentati suicidi, riusciranno a tornare a casa.

Perché M*A*S*H è diverso dalle altre pellicole demenziali dell’epoca o più recenti? Ovviamente per i contenuti. Se lo spirito e l’ironia sono due caratteristiche che vengono subito notate superficialmente, sono i paradossi che vincono su tutto e non solo fanno riflettere, ma rabbrividire e commuovere insieme. Si ride di gusto durante gli interventi di urgenza con il sangue che schizza dappertutto e si parteggia per le disavventure dei nostri e per la tragicità delle situazioni. Parodiando con stile e con un cinismo subdolo, Altman è riuscito a graffiare come non mai, a fare una critica feroce contro la guerra.

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E a convincere, oltretutto. Non dimentichiamoci che ha vinto la Palma d’Oro a Cannes (e, per quanto possa valere, un Oscar alla Migliore Sceneggiatura non Originale scritta da Ring Lardner Jr., vincitore di un altro Premio nel 1942 per La donna del giorno di  George Stevens, primo film della coppia Tracy-Hepburn. Personaggio scomodo, tra l’altro, per non aver collaborato con la Commissione per le attività antiamericane e finito sulla blacklist fino al 1965 e che si lamentò per lo stravolgimento della sua opera a favore dell’improvvisazione. Cosa che diede fastidio anche a Sutherland e Gould, i quali si lamentarono apertamente delle poche, scarne istruzioni ricevute) e che ha ispirato (o meglio, forse il romanzo, o tutti e due) l’omonima serie televisiva – una delle serie di maggior successo di sempre. L’ultima puntata è una delle più viste della storia della televisione americana – andata in onda negli Stati Uniti dal 1972 al 1983 e trasmessa a più riprese anche in Italia.

Nessuno voleva prendersi carico della regia (il copione passò nelle mani, tra gli altri, di Stanley Kubrick, Sydney Pollack, Sidney Lumet). Altman, allora non proprio conosciutissimo, rischiò, protetto dal fatto che in quel periodo la produzione stava girando due kolossal bellici che avrebbero coperto in parte le critiche sulle tematiche scomode sollevate. Il regista poi riuscì a stare addirittura al di sotto del budget preventivato.

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Perché guardare M*A*S*H anche se non si ama il genere? È un film che deve essere assolutamente visto per il contesto storico trattato, per l’atmosfera, per il suo andare controcorrente, per il cast composto da attori grandissimi, per molte scene entrate nella storia del cinema. Oppure anche soltanto per curiosità e cambiare aria dalle solite commediole demenziali senza senso che ci vengono proposte oggigiorno. Già, perché ogni cosa ha un senso in quest’opera: anche l’uso della violenza e dello splatter. Se infastidiscono ne hanno ben donde vista l’ambientazione. Inoltre è uno dei primi veri successi di un vero genio quale è stato Robert Altman. Carriera forse un po’ discontinua ma con dei titoli che hanno o portato avanti un certo tipo di cinema farsesco sul dietro le quinte o addirittura aperto un filone portato avanti ad esempio da Todd Solondz (vedasi le similitudini tra Happiness – Felicità e America Oggi).

Curiosità: il testo della tristissima e suggestiva Suicide Is Painless è stato composto dal figlio quattordicenne dello stesso Robert Altman, Mike Altman. La musica è di Johnny Mandel, autore anche del resto della colonna sonora.

Appuntamento alla prossima settimana con “Il film cult della settimana“

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