Intanto i difensori della libertà del web accusano le istituzioni italiane di cogliere l'occasione per attuare le sempre latenti volontà censorie e – non sempre a torto – di scarsa conoscenza del mezzo.
La realtà dei fatti, però, non è così semplice. Come ricorda Matteo Flora, in Italia la censura su siti web esiste già dal 2006 e fu allora accettata pressoché nel silenzio: “Nel momento in cui state leggendo, – scrive Flora - in Italia sono censurati 5.657 siti web, di cui 4322 su direttive dei Monopoli di Stato, 1199 dal CNCPO (Centro nazionale per il contrasto alla pedo-pornografia su Internet, NdA) e 136 con singoli provvedimenti dell’autorità giudiziaria o di organi amministrativi”.
Ma il web 'libero' non è soltanto fatto di siti che possono essere oscurati direttamente dalle autorità italiane. Per moltissimi, anzi, l'esperienza del web – e degli abusi e delle manifestazioni di idiozia - è mediata quasi totalmente da piattaforme che operano sotto giurisdizioni estere (quasi sempre USA), che adottano policy estremamente mutevoli e spesso poco trasparenti, se non vessatorie nei confronti degli utilizzatori.
E qui, ci troviamo di fronte a un doppio paradosso, che mescola le carte in tavola.
Primo paradosso del web libero: la censura dei cretini
“CI IMPEGNIAMO A MANTENERE FACEBOOK ATTIVO, ESENTE DA ERRORI E SICURO, MA L'UTENTE ACCETTA DI UTILIZZARLO A SUO RISCHIO E PERICOLO.” (Dai termini di servizio di Facebook)
A Google, Facebook o Twitter (per citare solo alcuni nomi) affidiamo i nostri dati personali, la nostra identità in rete e spesso il nostro lavoro. Le condizioni a cui concediamo tali dati sono un argomento che troppo spesso ignoriamo, salvo poi cadere dalle nuvole e gridare all'abuso quando ne subiamo le conseguenze.
“Google potrebbe anche interrompere la fornitura di Servizi all’utente oppure stabilire nuovi limiti di accesso ai Servizi in qualsiasi momento” recita uno dei tanti termini di utilizzo che sottoscriviamo senza leggere, nella fretta di utilizzare Gmail.
Il primo paradosso del web libero è questo: per scomparire o subire limitazioni da una di queste piattaforme basta a volte che qualche utente faccia una segnalazione – e spesso non importa se risponde al vero - o che uno stupido algoritmo rilevi la probabilità – non la certezza - di una violazione di una policy che non è dato conoscere.
Succede: mentre scrivo, apprendo che la visione di un video di un mio cliente su YouTube è stata limitata a un pubblico maggiorenne, su segnalazione della community (cioè gli utenti), sebbene non contenga alcuna oscenità o richiamo alla violenza. Possibilità di riesaminare la posizione? Non contemplata.
La scorsa settimana, l'account Facebook di Alfredo Accatino, noto e stimato pubblicitario, è scomparso per alcuni giorni con tutti i contenuti. Lo stesso è accaduto alla community Indigeni Digitali lo scorso marzo. Profilo e community ripristinati dopo alcuni giorni, ma senza alcuna spiegazione sui motivi da parte del servizio.
Quanto poi alla libertà che tali piattaforme si riservano sui nostri contenuti, su cui spesso conservano diritti anche dopo la cancellazione, invito a dare una lettura al sito Terms of service: didn't read, che offre una panoramica completa ed esaustiva.
Secondo paradosso: acchiappa il tuo stalker
Perlomeno, direte voi, se qualcuno pubblicherà le mie immagini private taggate con il mio nome e cognome, sarà facile segnalare l'abuso. E qui ci scontriamo con il secondo paradosso, perché rischiamo di trovarci come l'agrimensore K. alle prese con il Castello. Massimo Melica ha esposto le enormi difficoltà operative di chi si trova ogni giorno a tutelare le vittime di questi abusi via web, sia per la ben nota lentezza della giustizia italiana, sia perché si dovrà contattare i gestori delle piattaforme per chiedere – e non sempre ottenere – che si blocchi la diffusione dei contenuti.
Emerge così la questione delicata del diritto all'oblio e il secondo paradosso appare – per così dire – ancora più chiaro: se è possibile essere baditi da Facebook o da Google senza conoscerne il motivo, i contenuti diffamatori a nostro nome possono rimanere in rete per sempre, magari nel frattempo scaricati da altri utenti e ripubblicati su altri profili. Evidentemente c'è qualcosa di distorto nel sistemi di algoritmi e segnalazioni.
La faccenda sfugge poi di mano quando al singolo stalker si aggiunge l'accanimento dello sciame umano, come nel tristissimo caso di Amanda Todd, narrata da Giovanni Scrofani su Datamanager, vessata via web e fisicamente dai propri persecutori, ma diventata anche contenuto virale in rete, oggetto di giudizi impietosi e di commenti aberranti da parte di propri coetanei, “condannata e spinta al suicidio, con la facilità con cui si commenta uno status su Facebook”.
Conclusione provvisoria
Chi o cosa è libero? Chi o cosa dà le carte al tavolo? Un algoritmo. Un delatore in vena di burle. La necessità di punirne uno per tutelarne migliaia, o meglio per tutelare sé stessi. Il caso. L'errore. La probabilità. L'imitazione. Più probabilmente, l'interazione tra tutto ciò.
Mi pare sia chiaro che la realtà dei fatti non corrisponda alla contrapposizione schematica censura/non-censura.
In gioco c'è la nostra libertà, le nostre identità, i nostri diritti: online e offline, non è più il caso di fare differenza. Il web, in quanto mezzo, non ha colpe in sé, ma è un'estensione delle nostre azioni, di cui non abbiamo ancora sviluppato la consapevolezza delle conseguenze né dei limiti a cui sono sottoposte.
Indagarli è una sfida da cui nessuno, per anzianità di servizio, può dirsi esente.
Francesco Vignotto | @FrancescoVi
Mass Age Mess Age: the defense of free web, which isn't free
Recently during one of my lessons, I was explaining to my students that "sharing is one of the things we can do that triggers the virality of content, along with the vote (read "like" or "+1") and the comment."
As I was talking I realized, however, that the concept of sharing that I was explaining was purely mechanical and emotional: a couple of clicks, perhaps a line to explain why we like or dislike that content and that's it. It is all very far from what, just a few years a go, made the "philosophy of the Internet".
Giuseppe Granieri, in his Blog generation, explains very well how bloggers were dedicated to finding "interesting content on the web and sharing it with others". A sometimes weary work of research, selection and publication of new knowledge. The web itself, not Arpanet but Internet itself, was born to connect Universities and make knowledge available. The goal was the much advertised "collective intelligence, superior to the simple sum of the ones composing it". In essence, the concept was that reasoning together, putting intelligences together, would have brought to a collective enrichment that was impossible to reach separately.
Coming back to what I was explaining to my students, it appears obvious that it's not like that anymore. We share in the optic of the simple transmission of an information, not very different from the tendency, during friends reunions, of saying "do you know what happened or what Tizio or Caio did"? and to accompany this information only with emotional instinctive expressions: nice ugly, funny, surprising, incredible, and so on. The torsion of the concept of sharing, oeprated by social networks, has taken it much nearer what is commonly called Gossip. More than "Share", the Facebook button should be called "Transmit" or "Whisper".
It's the word of mouth dynamic, someone will answer me. In the end, the web is nothing more than the digital projection of human society and thus replicates its dynamics, whether they be nice or ugly. Here the problem isn't that the phenomenon is ugly or beautiful, right or wrong, it's that it doesn't take us anywhere, and actually only creates more problems, starting for example from the scarce reliability of information travelling on the web. The gossip dynamics doesn't include a verification of the veridicity of information per se, nor any preoccupation in terms of responsibility of the fact that we're actually publishing something.
If we add the times of the Web and the dynamics of people's attention, it appears pretty obvious that, in the end, we react in an instinctive, immediate way, trnsmitting emotions and not "knowledge" and that we tend to avoid complex content. This post itself, for example, will surely be too long for the majority of people who will see it.
But what happened to the good Jon Postel, true founding father of the Internet, who in 1981 formulated the law which carries his name and that describes the social function of the web: "Be conservative in what you do, be liberal in what you accept from others", which means that online it is necessary to be careful, and thus rigorous, respectful, exact and precise regarding what we propose to others. And we must be liberal, which means open to listen and favor and respect the freedom of thought and initiative of others in the act of receiving.
In substance Postel said that the web is a social ecosystem in which the engine is the communication based on exchange, listening, respect of one another, bringing value, interaction. Who enters and communicates online has the responsibility for what they say and does, but also a responsibility towards the others, which is the taslk of interacting, listening, sharing. Sharing in a view of added value, not gossip.
This law is now dead, on a web where billions of contents flow and in which the virality is a tool that is more and more encouraged for commercial reasons, and where even the so called influencers are measured not on the quality of what they say, but on how well they can engage their communities: visibility before everything else.
I read myself and I have the sensation of having written like those nice old people who say "well, when I was young things were quite different". Might be, but I continue to think that this gossipy web, more and more similar to the commercial television is, more than anything, a huge missed opportunity.
Francesco Vignotto | @FrancescoVi