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Siamo tutti qui, davanti al portone sprangato. Nessuno prova ad entrare. Chi ha tentato è stato respinto con furia, come se l'ingesso fosse sigillato da un campo di forza. E così ci guardiamo l'un l'altro, ci parliamo addosso ma non diciamo nulla, le parole scappano via, ci attraversano e si dissolvono nell'aria svuotate di ogni senso. Qualcuno ogni tanto alza la voce, ma nessuno si volta più ad ascoltarlo. Qualcuno minaccia, ma ha le scarpe bucate e nemmeno una fionda per realizzare il proprio intento minaccioso. Altri ancora minacciano, ma lo fanno solo per darsi un tono, per avere gli occhi puntati su di sé un secondo di più, e questo in fondo a loro basta, perché hanno ancora le scarpe tutte intere e un cappotto imbottito nuovo di zecca, con cui ripararsi dal freddo. Infine qualcuno monta una pedana e inizia a sbraitare sulla folla, mescolando cose vere e false, tutto e tutti in una pappa informe e priva di significato. Qualcuno alza la mano, prova a dissentire con educazione, ma in tutta risposta il predicatore estrae un mitragliatore e con una sventagliata lo zittisce. Il sangue cola sotto i piedi della folla mentre il predicatore continua, urlando e sparando sempre più a casaccio, uccidendo anche chi lo ha aiutato a montare la pedana da cui parla, finché un proiettile rimbalza sul campo di forza attorno al palazzo e lo centra in mezzo alla fronte, facendolo tacere una volta per tutte.
Siamo tutti qui, davanti al portone sprangato. Le vittime del massacro giacciono a terra e nessuno le sposta. Guardiamo le crepe del palazzo allargarsi, centimetro dopo centimetro. Ci prepariamo a festeggiare il crollo imminente, a ballare sui morti. La fine è vicina e non ce ne preoccupiamo, perché non ce la facciamo più, siamo svuotati di ogni cosa. E quando il palazzo crollerà su di noi, e le stanze trafugate e sgomberate in fretta e furia dai loro abitanti saranno sommerse di polvere e cemento, sarà troppo tardi per capire che, in realtà, il massacro è appena cominciato.
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