Che Stephen King sia il Re, lo dicono in molti, e a volte bisogna crederci, anche se il mio rapporto con questo signore è altalenante e comunque data soltanto da “On Writing”, che mi aveva colpito un po’ come san Paolo sulla via di Damasco. In più, dopo tutto il can can che se ne è fatto, ho cominciato questo romanzo con qualche apprensione (magari sarei stata una di quelle persone che lo avrebbero trovato orribile e sarei dovuta tornare indietro nel tempo per impedirmi di acquistarlo in modo da non sconvolgere gli equilibri di aNobii). Ho iniziato a leggerlo convinta che mi ci sarei dovuta mettere con impegno, che avrei dovuto superare ostacoli e durezze per arrivare in fondo, e che alla fine mi sarei trovata nel cerchio del King insieme ai vecchi suoi ammiratori storici.
Invece: voilà, mi son messa a leggerlo che era un piacere, è andato giù come l’acqua fresca, non vedevo l’ora di continuarlo, l’ho finito in un amen.
Dopodiché, mi sono chiesta se King, allora, sia invecchiato, o abbia fatto un salto nel futuro decidendo poi che l’unico modo per farsi leggere sia semplificare. Non che mi spiaccia la scrittura piana semplice, fattuale, ora succede questo, ora succede quello, ci vogliono anche libri che ti permettano di leggerli mentre stai lavorando a maglia, però è come se mi aspettassi qualcosa di più.
Detto ciò, alcune delle idee seminate qui e là nel libro son proprio belle, anche se poi cozzano con qualche particolare più fastidioso: quella del viaggio del tempo, ad esempio, che così come avevo letto di sfuggita nelle varie recensioni mi pareva tutt’altra cosa, e qui diventa una discesa e ridiscesa negli inferi di un passato più bello/ più brutto (ma, alla fine, più desiderabile del presente).
E magari da qui, chi non ha letto il libro e vuole leggerlo, smetta, ché io son brava a dire-non-dire, ma magari qualcosa mi sfugge lo stesso.
M’è piaciuta l’idea che il viaggio sia possibile soltanto da un certo luogo ma legato a un particolare attimo, e sia ripetibile ma a costo di azzerare tutto quello che è successo nel viaggio precedente. Non mi è piaciuto il fatto che non esiste spiegazione (fanta)scientifica del perché questo succeda, nemmeno tirata per i capelli o nascosta tra le brume dei “guardiani” o dentro l’armadietto della carne.
Mi è piaciuta l’idea che si possa tornare e ri-tornare; e comprare e ri-comprare; e dire e ri-dire; e prendere e ri-portare. Non m’è piaciuto che, di fronte alla richiesta di spiegazioni il protagonista (che in quel momento ero anche io) riceva come risposta uno sbrigativo: è così, punto e basta. Forse non mi è piaciuto nemmeno che, alla fine, mi sia sentita dire (cioè: il protagonista si sia sentito dire): in realtà non è proprio così, sarei mica scemo a credere che è stato proprio così? In realtà… eccetera (quasi che si volessero mettere delle toppe a una teoria del tempo che a volte fa un po’ acqua).
Però, diciamocelo, The King non voleva mica fare una storia di fantascienza, The King voleva soltanto scrivere una storia, magari con qualche altre storia incastrata dentro. E questo gli è riuscito, alla grande. E gli è riuscito di accumulare una serie impressionante di dati storici per costruirci intorno quella che sembrava essere il cardine del racconto (l’assassinio di Kennedy), ed è invece soltanto un pretesto narrativo. Ché, se avesse fatto lo stesso parlando dell’assassinio di John Lennon, secondo me non cambiava poi molto.
Gli son riusciti i personaggi, ché il prof che non può fare a meno di essere prof, in qualunque tempo si trovi a saltabeccare, è capace di tirarti dentro i suoi pensieri e le sue paure; gli è riuscito di mettere paura, ogni tanto, ché io, pur non avendo (ancora) letto It, mi aspettavo che saltasse fuori qualcosa qui o là; soprattutto, e di questo rendo grande e onorato merito, gli è riuscito di far precipitare anche me nella buca del tempo, così ché, dopo aver passato un pomeriggio a leggere di Jake comparso alla fine degli anni Cinquanta, niente cellulare, niente Tv a colori, niente Internet e così via, mi sono trovata a chiudere il libro e a vagare nella nebbia del mio tempo chiedendomi dove fossi capitata.
Per questo, e per il finale (che non è poi così positivo e melenso come sembra), pollice su.
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