Massimo Statello, poetica del fiume

Da Postscriptum

Era un luogo solitario

di silenzio e di luna.

Tutto come una laguna.

Tranne il vago deliquio del vento…

Nel più bel tuo chiaro

rapiscimi e svanisci

prima che il sole rinforzi e scaldi

e prima ch’io veda

il tenero dell’azzurro vago.

I due incipit poetici che ho riportato quale introduzione a questo scritto, non sono opera dello stesso intento, scusate, non appartengono alla stessa mano. Eppure una certa consonanza c’è, non sostanziale sicuramente, ma ideale senz’altro. Mi soffermo un attimo nel chiarire che Fernando Pessoa e Massimo Statello non condividono una concordanza d’intenti tale da poterli accomunare oltre l’ideale appartenenza a quel grande “io collettivo” che ogni giorno coglie le stesse ombre da un medesimo iperuranio. Sono le porzioni di quelle ombre raccolte, a far la differenza nei fini diversi cui tende la parola espressa dagli attori di questo mondo. Ora, quello che voglio dire, è che – ancor quando in maniera diversa – Statello e Pessoa mietono grano dalle stesse ombrose e solitarie lande e oltre questo niente più. Non ho intenzione di abbozzare un ritratto appassionato e appassionante di Statello, poiché le sue liriche saranno la miglior descrizione biografica possibile. Cominciando dalla poesia che offre il titolo alla silloge poetica edita nel 2009 dalla Pungitopo:

Seduto su quest’erme pietra

la tua umile natura osservo,

rossastro è il cielo,

il sole basso all’orizzonte

soave scendi alla vita

e fresche care brezze

porti alle mani affannate

Conduci la frescura nel cuore

e il calore nell’animo scarno.

Da questi versi, posti come riferimento fisso, bisogna cominciare la lettura della raccolta poetica, sempre chiedendosi nell’intimo quale sia, in cosa consista l’istinto del fiume.

Le liriche di questa silloge vanno lette in sequenza, come se si trattasse di prosa, un romanzo, per l’appunto il romanzo di Massimo Statello. Un racconto che inizia in maniera simile a quello di chiunque altro, in modo Aleatorio. “Cona la sorte”, inizia Statello, ove il verbo conare è sì sinonimo di sforzo violento ma sottende un meta-significato che conduce l’idea all’impulso improvviso che si manifesta nel vomito. L’invito, anzi l’imperativo, posto in essere dal narratore-poeta giunge al classico cogli l’attimo, ma assimilando la forzatura del destino ad un rigetto per la vita, insoddisfacente al palato per quel suo retrogusto acidulo. Un Nodo Amaro, dirà più tardi il testo stesso. Questo canto introduttivo è di una onestà assoluta, chiarendo al lettore, immediatamente, idee ed intenti, quanto il motivo non inutile di una elegante forma rievocante antiche vesti. Non deve pensare il lettore, che si tratti di mero gusto per la citazione. La disfatta, il ritorno con le pive, da quella battaglia contro il Fato promossa in principio, riecheggia Pascoli solo incidentalmente al proponimento di raccontare i fatti di ogni giorno con i suoni ancestrali delle parole d’un evo trascorso. Ciò ha in sé la matrice d’un nuovo modo d’intendere la poesia siciliana. Con Statello ci si sente il viso bagnato dagli spruzzi delle onde oceaniche che rifrangono sulla banchina, sia questa europea, oppure americana. Probabilmente questa arcaica oscurità prescelta, è anche un nascondimento, un usbergo, una corazza Lungilucente nei riflessi, come quella che gli occhi del guerriero ebber modo di osservare quando “l’onda rossastra si franse timida al basso litorale e le altre rituffa sull’onda spumeggiante”.

Ma a noi, per adesso, non interessa valutare le contingenze terrene, così come, nell’esaminare le opere di Michelangelo, di secondaria importanza sono i dissidi tra l’artista e Giulio II. No, scusate, dico fesserie, i motivi che inducono l’artista ad operare sono sempre essenziali, altrimenti avremmo solo l’arte per l’arte. Solo che nel caso di Statello i motivi che lo inducono a farsi schermo di un linguaggio ormai in disuso, sono interpretabili in base alla lettura stessa ed il rivelarli qui, su questo scritto telematico, somiglierebbe troppo alla lettura anzitempo dell’ultima pagina di un noir.

Nella raccolta poetica, estremamente biografica, fanno spesso capolino momenti e accadimenti strettamente personali, quali la morte di due nonni, ad esempio. Ma dilungarsi nello spiegare è uno sforzo autoreferenziale. Statello impiega pochi cenni per mostrarsi virilmente, in Il Vecchio Giorno:

Lo sguardo proteso

ad un balogio barlume

smonta becero al cielo

che sembra toccar suolo

donde un barbaglio mattiniero

sfodera e lene l’aria e i campi

che s’acchiudono dal cielo col cimitero.

Su un tenero ringhio d’arie secche

si chiude il vecchio giorno scuro

che s’incammina al nascer del nuovo sole.

Le risposte son tutte nei versi, perché “conare” qualcosa che già c’è? La poesia, del resto, è fatti di attimi, di impressioni e di Brividi:

Cosa v’è di più bello

e di più leggiadro,

se non il letiziare,

mirando l’illuni mondi lontani ed arcani,

l’ermi lumi?

Sono turbamenti istantanei che per via di collegamenti simbolici mi connettono nuovamente al mondo esoterico di Pessoa. Tanto che quando giungo alla lirica successiva – Ad Anubi – non posso fare a meno di sentir correre lungo la schiena un tremore irrazionale, sintomo di una paura arcana e lontanissima, di mondi senza luna

Statello ha sapientemente architettato la struttura del suo libro, procedendo con ironica logica nel posizionare le sue poesie. La seguente Nel Peribolo qui vicino potrebbe esser fonte di lunghe disquisizioni: ci si chiede cosa sia veramente vicino, lo spazio cintato o il tempo in cui i greci lo posero in essere? Ed è vicino per spazio o per tempo? Forse la dimensione giusta sta nella a-temporalità e nella non-spazialità di questa vicinanza metaforica, ideale. Un luogo “altro” e borgesiano. La descrizione di Statello non è fine al far rivivere un momento passato, a farci immaginare Platone che attraversa un agrumeto o “la capitagna” che “ai più remoti tempi della sua giovinezza” “arava colle sue caparbie braccia che parevano non esaurir mai”. La rappresentazione è invece quella del momento, colto nell’attimo, nell’istante Aleatorio, contemporaneo all’essenza divina:

s’aggira perspicace lo piglio del cavedio

che ode melodiare la capinera nell’equoreo cielo

ed esordire nel perspiquo meriggio

che adduce il succinto nitore

alla loggia e all’accolta dell’aggetto

che in gruppo sembra far rissa.

Poi, accade qualcosa, nella vita dell’io narrante, o forse in quella di chiunque ha vissuto nel peribolo e d’un tratto si trova scaraventato nella concisione esistenziale di “Lunghi Pensieri”. Il declivio, immagine che spesso sarà presente nei versi successivi di Statello, non è qui ancor menzionato, eppur lo si coglie tutto nella sconsolata anticipazione di “Sabato”. Inizia quasi come una sorta di ode al giorno in questione, è termina nella descrizione di un osservatore malinconico, eppur virilmente solo, come un gattice divelto, nella contemplazione del ruzzo dei giovani di ogni tempo.

In Avversità assume valore la musicalità della rima, ad elevare un canto impetuoso di contestazione mascolina. Un magnifico andate a quel paese – se vogliamo – cui segue idealmente Supplizio Temperato. Il temperamento ai supplizi è indubbiamente dovuto alla resistenza della dura scorza del poeta lottatore. E continua sul rigetto della serenità L’Allegria: la difesa, l’autodifesa, rappresentata dalla volontarietà di una reclusione auto-indotta nelle buie segrete di una torre solitaria, di un uomo che trova consolazione solo nell’imperturbabilità apparente, in mezzo alle procellose onde di una tempesta. “Nell’aria primaverile”, è ancora il canto del contrasto tra le felicità dei tanti spensierati e la consapevole prigionia di chi ha compreso. La risposta a questa felicità apparente è da rinvenire nel racconto movimentato di Domenica d’Inverno:

Burla di tempesta,

orologi tonanti,

dolor di testa

e pignatte fumanti.

Anch’io son qua

e senza batter ciglio

per la noiosa giornata

me ne sto isolato

in questa parte di casa

ove nessuno riposa

e turba la mia tranquillità.

In Forse rimbomba la contemplazione di un declino biologico e vitale ma soprattutto ideale, la speranza che svanisce in una valle della vita che forse ricorda troppo quella religio-letteraria delle “lacrime” cattoliche.

Le lunghe tenebre de L’Oscurità calano sulle nostre teste a portarci la pace e la serenità della sera, riposo imposto ai nostri travagli quotidiani. Uno sprazzo di democrazia divina. La notte come metafora della fine, ancor più democratica del buio giornaliero.

Il rosso del tramonto, declivio anch’esso, è una delle tristi sfumature più presenti nella poesia di Statello. Piove, narra dell’invidia verzicante di chi non gode della routine di cui Dio ha fatto dono alla gente che “s’affretta e corre sotti i tetti”. Eppure Statello si rende conto di quanto poi la realtà non sia dissimile per ognuno di noi:

è il lacrimare degli uomini che cade dal cielo,

la pioggia infuria

e l’animo è guerriero.

In questa consapevolezza è la forza virile del poeta, Il Conforto dei pensieri che “alludono all’aspro vivere dei dì lusinghi solenni.

Il conforto divino? Ma è l’indole stessa di questo divino che si nega all’apprensione immediata:

Su l’acclività

d’un gibboso sentiero

io la trovai.

Questa è la brevissima sintesi di un lungo pensiero che dal micro conduce al macro.

I tratti pittorici non sono pochi, tra i tanti ricordo La Neve, lievissimo come un fiocco: “scompare muta la natura”, e basta il silenzio evocato, quello di Ai trucioli di un falegname, per esaudire l’esigenza di lettore affamato di spiegazioni. Il truciolo “che s’attorce in ricciolo” riesce a dare tutto il senso dell’aggrovigliarsi su se stessi. Ma il fato avverso è ironicamente presente proprio nel momento del termine di questo piallare eterno. Dovrebbe essere il momento della ridonata libertà e invece l’uomo si riduce come quei “trucioli accantonati lontano”, nel silenzio.

Non siamo sulle rive del Tago, qui il fiume è l’Irmino che comincia la sua discesa proprio dal Monte Lauro:

opulente d’onere,

onusto si coprì di gloria

e così effimero non restò e passato,

onnipresente nella storia

segnò una dell’opre mie più belle.

Descrizione potente di un momento che segna anche la rivoluzione lunare, poiché adesso, in piena simbologia circolare, si ritorna sul lato meno oscuro. Solo un temperamento, ovviamente, che non può cancellare il passato. Oltre il San Leonardo, accenna a quel temperamento quando propone

Sovrannaturali silenzi

Accompagnano l’irrorarsi

Degl’esigui eduli erbaggi…

È giunto il momento di riproporre il quesito: cos’è l’istinto del fiume, in cosa consiste?

Forse il suo dissolversi nel mare, il declivio! Recatosi al Disteso Mar là giacque”, ed è una metafora esistenziale (Come la vita).

C’è una speranza in tutto ciò?

Statello scrive:

Volentieri andrei

Nella plaga immaginaria:

entrerei in sovrannaturali silenzi…

Un sentimento positivo, di fiducia nell’avvenire, la tempesta è passata e finalmente non verzica più l’astio, bensì la natura, il creato che avvolge le speranze umane.

Il descrittivo passo di Colli Iblei ne è un corollario:

sparpagliate umili case

E vicino chiuse valli

Ed equanimi bestiami che quinc’entro stanno,

profluvio d’irreali silenzi.

Una delle poesie che segnano la raggiunta maturità del pensiero di Statello, è Il panciotto ad ore, che nella serenità in qualche modo ottenuta, così riesce a bilanciare il declino e la speranza:

Sul finire dell’alba

è spenta ogni cosa.

Il fior degli anni suoi,

anch’esso spento,

non sembra aver corroso il suo cuore

e in dono recherà

il panciotto ad ore.

Quest’ultima è la sintesi della poetica di Massimo Statello, e forse è tra le liriche che ho preferito, eppure occorre dare un ultimo sguardo all’Irmino, verso quel ramo ormai spezzato che campeggia sulla copertina bellissima di questo grande brevissimo libro. Il ramo sarà condotto all’infinito mare? Forse! O forse si incaglierà lungo la discesa, tra i tanti detriti della vita, le pietre scartate ed i rifiuti, tutto ciò che forma l’humus di un futuro che per fortuna abbiamo dimenticato vivendo:

Seduto su quest’erme pietra

la tua umile natura osservo,

rossastro è il cielo,

il sole basso all’orizzonte

e tu scorri verso il mare taciturno,

soave scendi alla vita

e fresche care brezze

porti alle mani affannate.

Conduci la frescura nel cuore

e il calore nell’animo scarno.


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