Un tardo pomeriggio di metà Luglio, Cinema Barberini, 34° edizione del Fantafestival, la fossa dei “disturbatori”.
Colonna sonora: urla, lazzi, fischi e pernacchie assortite.
Giornata scoppiettante in questo infuocato pomeriggio estivo al Fantafestival che compie il suo 34esimo compleanno (è quasi più vecchio di me!).
Dopo anni di silenzio finalmente ritornano in gran pompa le legioni dei “disturbatori” che diedero lustro e onore all’appuntamento Romano, fin dai tempi della ormai leggendaria maxirissa con Alvaro Festa.
Il disturbatore infatti è più di un semplice esaltato di passaggio, è una figura istituzionale e istituzionalizzata del festival.
É un appassionato, uno strano incrocio tra un critico colto e raffinato e un visigoto nella stagione degli amori. la realizzazione “dell’armonia tra penna e spada” che teorizzava Mishima.
É una figura che si guadagna sul campo il diritto ad esprimere il suo disappunto verso un film, in maniera colorita, talvolta anche eccessiva, sorbendosi con stoica fermezza anche fino a dieci e passa ore di proiezioni ininterrotte.
Talvolta come ho detto prima esagera, per correttezza è bene ribadirlo, ma lo fa sempre con la buona fede e la passione che muovono il vero cinefilo.
Paga il suo biglietto senza fiatare e se un film è bello non si fa il benché minimo problema di prezzo a comprarlo originale pur di sostenerlo.
Questo a differenza di molti civilissimi esponenti della maggioranza silenziosa che scaricano a tutto spiano da internet, incuranti del danno che arrecano agli autori, ai film e al cinema in generale.
Negli ultimi anni a dire il vero questa nobile istituzione era un pochino declinata, facendo mancare il suo folkloristico apporto e alla fin fine riducendo il festival ad una banale serie di proiezioni, anziché essere il momento di visione condivisa e partecipata che lo ha reso famoso.
Su questo dovrebbe riflettere qualcuno degli organizzatori che invece si compiaceva dell’apparente normalizzazione della kermesse.
Ma evidentemente, e con mio personale sollievo si sbagliava, visto che come un fiume carsico la marea stava sempre li, sottotraccia aspettando solamente che un primo coraggioso rompesse l’argine per far esplodere la contestazione che covava sotto la cenere.
Conosco bene questi fatti visto che in un passato, ahimè, ormai remoto anche io ho militato in questa falange di umanità strana ed irrequieta.
Così eccomi qui, nel girone dei dannati urlanti, per raccontarvi direttamente dalla trincea i fatti e i nomi di questo Fantafestival.
Per ovvie ragioni di deontologia professionale mi sono contenuto, rimanendo fedele al mio compito di osservare e riportare senza interferire anche se per onestà devo ammettere di aver piazzato anche io un paio di improperi ben assestati e direi più che meritati all’indirizzo di “Antisocial”.
Un film per la regia di Cody Calahan che sarebbe già generoso definire un autentico colpo di pialla sui testicoli.
Trattasi di un quantomai abusato horror/college di ambientazione apocalittica, dove gli stereotipi e i luoghi comuni del genere si sprecano.
Dalla coppietta “interracial” che però non conclude mai un amplesso decente, al nerd sfigato che però ha già capito tutto sul disastro che incombe, per finire col più classico dei topos, lo zerbino innamorato della belloccia di turno che però non se lo fila di pezza, costringendolo a recitare per tutta la pellicola il deprimente ruolo dell’amico e confidente.
Il momento più alto è senza meno quello in cui la protagonista ci libera della sua indigesta presenza praticandosi una craniotomia con un Black & Decker trovato per caso in cantina.
E direi che a questo capolavoro del banale ho dedicato fin troppo spazio.
Altra grandissima delusione è rappresentata da “Nymph”, di Milan Todorovic.Dico delusione perché del regista serbo già vidi ed apprezzai il precedente “Zone of the dead” del 2009, a cui per altro va l’indubbio merito di essere il primo zombie movie balcanico.
Dico delusione perché onestamente mi aspettavo di più anche da un Franco Nero che, parlando sui generis, in questi anni sta vivendo una seconda giovinezza.
Invece mi sono trovato di fronte ad un prodotto smaccatamente commerciale che inizia come un film dei Vanzina.
Con Musichette tecno primi anni 90 e paesaggi a profusione.
Più che Nymph, sarebbe stato più adatto un titolo come “vacanze in Serbia”.
Peccato, perché il recupero e la rielaborazione del mito della sirena cannibale, ambientato nel panorama post-socialista della ex Jugoslavia era un’idea gagliarda e offriva spunti notevoli.
Invece Milan cede alla tentazione di fare un film per tutti, cosa che un horror difficilmente può essere.
Morale della favola, una trama piatta con dialoghi così scontati che io stesso potevo anticiparli pur non avendo visto il film.
Gli attori poi sono pessimi e il pur bravissimo Franco Nero, col suo talento, piuttosto che coprire le pecche altrui, le evidenzia.
Per tenere quindi desta l’attenzione dello spettatore tra una veduta paesaggistica e l’altra (invero bellissime), il regista ricorre in maniera smodata al famosissimo “controcampo serbo”.
Una raffinata tecnica cinematografica che consiste in una camera fissa sulle chiappe delle attrici principali, seguite poi in lunghi piani-sequenza ogni qual volta se ne presenta l’occasione.
Ora chiariamo, anche se da tempo ho superato l’età delle tempeste ormonali della prima adolescenza, non sono così vecchio da non apprezzare la vista di un bel corpo femminile scoperto e nemmeno di un fondoschiena nello specifico, quando la trama lo richiede.
Ma l’essere violentemente schiaffeggiato per quasi due ore da un incessante uragano di culi sventolati a bella posta solo per coprire una carenza nella struttura dei dialoghi e nell’impianto narrativo più in generale non solo mi annoia, ma un pochino direi che mi offende pure.
Il consiglio che voglio dare a Todorovic, da suo sincero ammiratore quale sono, è di lasciar perdere le sirene commerciali e di ributtarsi sull’autorialità che lo contraddistingue e che lo eleva dal mediocre.
Un film horror non deve necessariamente piacere a tutti, anzi, per la particolarità del genere direi che è praticamente impossibile che piaccia a tutti.
L’importante però è che non deluda gli appassionati e il pubblico a cui è rivolto.
Senza dubbio più onesta e divertente risulta la visione di “Orc war” un autentico e genuino trashone che vorrebbe essere un fantasy ma che alla fine risulta più che surreale, virando tanto violentemente, quanto involontariamente da Tolkien a Ionesco.Con i suoi dialoghi sgangherati, i costumi presi dai fondi di magazzino del “Signore degli Anelli”, personaggi che appaiono e scompaiono dal film senza una motivazione apparente, né recondita e location che sembrano rubate alle cave di tufo sull’Ardeatina, il film ha il merito di riconoscere da solo i propri limiti e regalarci due orette di sane e grasse risate.
Ma il momento memorabile e da tutti atteso, anzi invero da qualcuno temuto, è la proiezione di Poe III di Domiziano Cristopharo.
Già durante le serate precedenti si erano avute avvisaglie e scaramucce con il regista che facevano presagire la catastrofe.
La sera della proiezione gli organizzatori vedono riempirsi la sala con l’orda dei disturbatori al gran completo.
Il nostro Luca Ruocco ha i sudori freddi e visti i miei precedenti mi prega di intercedere sugli elementi che so essere tra i più turbolenti.
Inutile dire che con una malcelata vena di sadismo lo informo che il mio ruolo quella sera è un altro.
Non interferirò negli eventi e non farò nomi.
Un giornalista non rivela mai le sue fonti!
Era una vita che sognavo di dirlo…. Ovviamente ringrazio Luca per avermene dato l’occasione.
Iniziata la proiezione si accendono gli animi.
Da una parte l’orda famelica di kaos inizia con commenti e risatine, dall’atra i difensori dell’ordine costituito che si sentono Charles Bronson in erba.
La miscela è esplosiva e va dato tutto il merito al bravo Cristopharo che ha saputo dominare la situazione da vero mattatore, se gli eventi non sono degenerati.
Anzi la sua disponibilità al dialogo ha trasformato quello che doveva essere l’incontro con il regista, in un’assemblea paritaria e partecipata al di la dei ruoli precostituiti autore/attivo – spettatore/passivo.
Va detto che il fim, pur non facendomi impazzire, non manca di momenti gradevoli (il terzo e il quarto episodio della fattispecie) e alcuni commenti sono stati decisamente fuori posto.
Altri invece, azzeccatissimi. Anzi direi pure sottotono.
Non andrò a contestare la scelta stilistica di una ricerca del barocco, inteso come volontà di stupire a tutti i costi che si traduce in un uso del decoupage a volte stucchevole (l’episodio è quello della maschera della morte rossa), o in una sessualità ostentata.
Anche se d’estate il mio livello di testosterone si abbassa notevolmente e non gradisco l’abuso del nudo. Maschile o femminile che sia.
Come dicevo non andrò a sindacare queste scelte che rientrano a pieno titolo nella sfera del gusto soggettivo e possono piacere, quanto non piacere.
Ma quello su cui proprio non posso star zitto, è la scelta totalmente ingiustificata e a priori di girare in Inglese.
Come sono uso scrivere su queste pagine, già di mio non approvo che film Italiani siano girati in Inglese e sottotitolati nella nostra lingua.
Mi sa di provinciale e rinunciatario da un punto di vista culturale. Ma quando poi mi trovo davanti ad un Inglese con marcato accento trasteverino come in questo caso, oltre alle ossa di Padre Dante, sento scricchiolare nel tentativo di rigirarsi nella tomba anche quelle di Shakespeare.
Tra le piacevoli sorprese invece mi preme segnalarvi lo svizzero “Chimere”.
Primo, perché i film di genere Elvetici di questi tempi sono più rari di quelli Italiani, quindi meritano tutta l’attenzione del caso.
Secondo, perché il film oltre ad essere gradevole e fresco, ci riporta finalmente , dopo anni di sfilate di raffinati ed effeminati dandy in abito da sera, ad un film violento, crudo e crudele o per restare in tema… sanguigno!
Si fa notare anche “I’m a ghost” di H. P. Mendoza.
Un autentico self made movie, in cui il regista opera una scelta autoriale coraggiosissima componendo le musiche, curando gli effetti speciali e la fotografia.
Girato in un’unica casa, tiene alta la tensione narrativa con l’ironia dei dialoghi e una storia che riprende il punto di vista del fantasma come in “The others”.
Non mancano le battute mordaci che tuttavia non scalfiscono per niente la ricerca introspettiva che questa pellicola propone.
Presentandoci i discorsi tra il medium e lo spettro come delle sedute di psicoanalisi.
Mendoza ha rischiato di brutto. Infatti ad un’operazione del genere basta solo un passo falso per cadere nel ridicolo o peggio ancora, nel noioso.
Una prova d’autore più che riuscita e che ci lascia in attesa di nuovi lavori del regista.
In ultimo ho voluto lasciare “Oltre il Guado” (Lorenzo Bianchini), in quanto ho voluto riflettere sull’aggettivo da usare per meglio definire questo film proprio fino all’ultimo.
Credo che il migliore sia : “potente”!
Un film lentissimo, basato sul gioco dell’attesa di ciò che è celato e pur tuttavia mi ha tenuto inchiodato alla poltrona per 100 minuti alla fine dei quali scopro di averne ancora voglia.
Una fiaba nera, come quelle raccontate davanti ai caminetti d’inverno nella migliore delle tradizioni contadine del Nord Italia.
Una natura mostrata come una protagonista assoluta, capace di meravigliare più di tutti gli effetti digitali di cui si possa disporre.
Il bosco, una cattedrale silenziosa. L’abbandono e la tristezza dei vecchi paesini morti e dimenticati.
L’orrore del tempo che passa tra notti insonni invecchiando in silenzio e il freddo pungente che esce dallo schermo e arriva a gelarti le ossa attraverso la gestualità del protagonista.
Un bravissimo Marco Marchese che regge da solo e con dialoghi ridottissimi, appena accennati, il difficilissimo compito di trasmetterci le sensazioni di questa odissea nella solitudine che si stende in questa valle incastonata nel cuore dell’Europa.
A dare peso alla dimensione fiabesca è anche la voce narrante, nei panni di un vecchio Jugoslavo interpretato da Renzo Gariup che, al tramonto della sua vita, si volge indietro e rispecchiandosi nelle montagne boscose ci racconta le ansie della sua gioventù corsa via troppo in fretta.
Potrei dirvi che c’è dell’Herzog o del Pupi Avati.
Ma personalmente credo che sia tutta farina del sacco di Bianchini.
Per una volta mi trovo in pieno accordo con la giuria del festival che ha voluto premiare questo film che non esito a definire un capolavoro e probabilmente il più bello che abbia visto negli ultimi dieci anni.
Ho applaudito in piedi!
A margine delle proiezioni anche quest’anno non è mancato il mercatino delle novità fuori dalle sale.
Oltre ai bravissimi ragazzi di “Proiezioni Mentali” che sono ormai diventati i miei fornitori ufficiali di Daleks, trovo una novità.
O meglio, definirla novità non sarebbe corretto visto che è un qualcosa che affonda le sue radici nella mia mai troppo compianta adolescenza, che in fondo ancora perdura.
Ma qui parliamo dei giorni felici del mio ginnasio, quando uscito da scuola entravo in edicola chiedendomi con quale fumetto avrei potuto fare incazzare mia madre quel giorno.
E a parte “Necron” che facevo puntualmente comprare ad un mio amico maggiorenne, nella mia mazzetta di fumetti da nascondere sotto il materasso c’era immancabilmente “Splatter”.
L’odore della carta si mischiava con quello del sangue e delle interiora sparpagliate sul pavimento.
Ogni pagina era un arcobaleno macabro!
Così era e così ancora è!
Paolo Di Orazio, l’uomo che per circa un anno mi mise in testa l’idea che da grande avrei fatto il becchino ci riprova ed è così matto da riuscirci pure!
Sfidando denunce, querele e interrogazioni parlamentari che all’epoca falcidiarono le testate fumettistiche fino a toccare (e snaturare) anche un mostro sacro come Dylan Dog, la rivista torna più cattiva che mai.
La formula è sempre la stessa.
Piccole storie di agile lettura, sia con richiami colti, sia con inediti d’autore.
Di nuovo c’è una veste grafica accattivante, una intercalare di taglio cinematografico e una carta di qualità che la identifica subito come un prodotto culturalmente alto, pronto a causare ulcere, ci auguriamo il più dolorose possibile, ai Soloni e ai Torquemada nostrani.
Dirò di più. Il buon Paolo va elogiato perché oltre a buttarsi in un’operazione di per se già rischiosa in un paese arretrato come l’Italia, ha deciso di giocare in toto “senza rete” coinvolgendo giovani disegnatori reclutati direttamente dalle scuole di fumetto.
Così magari, se riuscisse a diventare un esempio per altre testate, i nostri artisti, o almeno una parte di loro, potranno rimanere a casa, con buona pace dei nostri cari vicini Francesi che in questi anni di freddo e disonorehanno fatto incetta delle nostre matite migliori.
Colonna sonora. Rough – comunicato