Titolo: Mastro don Gesualdo
Autore: Giovanni Verga
Anno: 1889
Eppure, Gesualdo Motta, protagonista dell’omonimo romanzo di Verga, ha ben poco in comune con Andrea Sperelli e in genere con il prototipo di uomo decadente ed esteta proclamato, negli stessi anni, da D’annunzio e da Huysmans. Gesualdo è un uomo del Sud, visceralmente attaccato alla terra e ai valori che da essa – in qualche modo- discendono e ad essa si ricollegano.
L’opera si apre, come un romanzo nel romanzo, ripercorrendo la vicenda biografica del protagonista, con una precisione analitica che deriva all’autore dalla conoscenza (quasi contemporanea) del romanzo naturalista francese.
Gesualdo ha un obiettivo, che si esplica su un asse duplice: la conquista della “roba” e dell’amore. La conquista della “roba” è quasi un’ossessione: accumulare terre, “proprietà”, è segno di ricchezza per la società siciliana del 1848 e il podere di Mangalavite rappresenta per il nostro protagonista il potere incontrastato, sempre orgogliosamente rivendicato e legittimato, “ Ne aveva portate delle pietre sulle spalle, prima di fabbricare quel magazzino!”. Il matrimonio con Bianca Trao, d’altra parte, appartenente ad una nobile famiglia in declino, è l’occasione per il grande salto di qualità: il povero che diventa ricco – da mastro, cioè umile lavoratore manuale, diventa don, il titolo dei galantuomini, dei possidenti.
Sposando Gesualdo, Bianca potrà salvare l’onore della famiglia e impedire che i Trao cadano definitivamente in rovina; sposando una nobile, Gesualdo potrà entrare di diritto a far parte di quella società da cui altrimenti, malgrado le sue ricchezze, rimarrebbe escluso: ha bisogno di sposare una nobile per “far lega coi pezzi grossi del paese… senza di loro non si fa nulla!” Ma il matrimonio è in questo caso, più che mai, una formalità: i pensieri di Bianca sono rivolti ad un altro, Gesualdo non sa “trattare le donne”, le sue mani sono rozze e sporche di terra, non conosce le parole, quelle che una donna, e per di più nobile, vorrebbe sentire dal proprio uomo…
Sullo sfondo, gli anni più inquieti della storia italiana e siciliana in particolare, le vicende che si susseguono dallo scoppio delle prime insurrezioni antiborboniche (1820) alla rivoluzione del 1848. E l’autore, attraverso la tecnica dell’impersonalità propria del Verismo, sieclissa in un uomo del popolo, parla di loro, con loro e come loro, arrivando persino a dire che gli ideali rivoluzionari coprono solo gli interessi egoistici di chi li persegue e facendosi portavoce di un prodromo veritiero quanto amaro di quella concezione fatalistica e immobile della storia che caratterizzerà la letteratura siciliana, almeno fino a IlGattopardo.
Ma il determinismo verghiano investe anche la vicenda individuale del protagonista: la nascita di Isabella sarà la conferma, per Gesualdo, che “il pesco non s’innesta all’ulivo”, che lo status sociale, non a caso, indica il posto che si deve occupare nella società, ma anche quello che si è, senza possibilità alcuna di cambiamento o di riscatto. In questo caso, la figlia, che dovrebbe essere - naturalmente – la persona a lui più vicina, è, invece, la più lontana, Gesualdo sente e sa che non gli appartiene, che non è “sangue del suo sangue”.
L’epilogo del romanzo è cosmico, potremmo dire, perché tutto muore nel Mastro-don Gesualdo: la casa, la “roba”, la campagna, gli uomini; il male è “nel” vivere e “del” vivere, una sconfitta generale, una “morte dall’interno”, come il cancro allo stomaco che determinerà la fine di Gesualdo, fatale e necessaria.
Quando, dopo il consulto con i medici, Gesualdo ha capito che sta per morire, proprio allora si attacca alla vita con ostinazione, “finché c’è fiato, c’è vita”, convivendo con i suoi malanni, ma profondamente tormentato dalla distanza che continua a separarlo, anche in questi momenti, dalla figlia Isabella: “E lui allora sentì di tornare Motta, com’essa era Trao, diffidente, ostile, di un’altra pasta”.
In questo senso, pertanto, il romanzo si pone metafora dell’incomunicabilità e dell’incompatibilità, quale espressione del malessere dell’uomo del Novecento. Gesualdo Motta sarà sempre in bilico fra mastro e don, categoria sociale ed esistenziale insieme; è un “vinto” nella dimensione interiore e nella vita affettiva e proprio in lui si proietta la “disperata rassegnazione” dinanzi alla durezza della lotta per la vita che sarà contrassegno di tutti i personaggi verghiani.