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Masuria : la fata che visse migliaia di anni – Parte 1

Creato il 18 agosto 2011 da Antonino1986

Masuria : la fata che visse migliaia di anni – Parte 1TROVI QUESTO RACCONTO E MOLTI ALTRI NELLA RIVISTA LETTERARIA EBOOK MANIA

Masuria : la fata che visse migliaia di anni – Parte 1

Due cose belle ha il mondo:

Amore e Morte

Giacomo Leopardi (1798-1837)

Il tramonto insanguinava il cielo e scure nubi si addensavano all’orizzonte. Dall’alto dei merli del mastio il vecchio re Lugan scrutava con impazienza oltre la valle, maledicendo ad ogni respiro la sorte, che lo vedeva anziano e debole in tempi così duri, proprio nella fase più importante della terza grande guerra. Il braccio non era più neanche in grado di sostenere la spada, i dolori non gli davano pace… Inutile, sono inutile, solo un peso per il popolo che ho giurato di difendere. Avrebbe voluto cedere il trono e ritirarsi con la sua dolce sposa, dalle incombenze del governo; Turan, il suo unico figlio, era pronto. Saggio, valoroso, astuto e con il coraggio di un leone, in vero aveva proprio tutte le doti di un grande re.

   Turan. L’angoscia lo tormentava. Tre lunghissime interminabili lune erano trascorse da quando aveva lasciato la fortezza con i più valorosi guerrieri di Man, diretto alla Piana del Drago, dove l’ultima grande battaglia avrebbe deciso le sorti della guerra e, con esse, il destino degli uomini. Ottantacinque volte il sole era tramontato e risorto dopo altrettante notti di afflizione ed inquietudine. Aveva contato ogni istante da quell’alba in cui la carovana era sortita oltre le mura fortificate. Le fanciulle avevano gettato fiori, i musici avevano suonato le melodie di buon auspicio e chiunque avesse anche una sola goccia di sangue fatato nelle vene aveva recitato o cantato tutte le protezioni nella lingua antica.

   “Lugan, ti prego, rientra che la notte avanza” la regina lo aveva raggiunto sul mastio, come ogni sera, ponendogli il mantello sulle spalle e abbracciandolo tristemente. Insieme si attardarono ancora qualche istante, indugiando con lo sguardo là dove il sole era appena morto, verso quella valle dove il sangue scorreva a fiumi, nell’ultima battaglia della terza grande guerra.

***

   Rianna la rossa era stata la più bella e coraggiosa fanciulla che avesse mai visto. Quando l’aveva incontrata la prima volta egli era già un vecchio guerriero provato dalle innumerevoli battaglie sostenute, ma era ancora temuto e valoroso, in grado di disperdere decine di nemici come fili di paglia al vento.

   In quel tempo la guerra era appena iniziata e la terra aveva bevuto ancora poco del sangue degli uomini. Rianna, figlia del suo compianto amico Hen, morto in battaglia pochi anni prima, benché giovanissima, reggeva il trono di Goban, in attesa che l’erede raggiungesse l’età minima e superasse le previste prove. Così sedeva al consiglio di guerra dei trentasei re e prendeva parte come loro pari alle decisioni sulle strategie del conflitto. Finita l’adunanza, durante la quale non aveva neanche osato rivolgerle la parola, tanto la sua bellezza gli incuteva soggezione, si preparava a far ritorno sul campo di battaglia, quando lei lo sorprese attendendolo fuori dalle scuderie, fiera e magnifica sul suo cavallo nero, avvolta in vesti che risplendevano come l’oro, e con i capelli sciolti che la incoronavano di fuoco.

   “Sire Lugan - gli aveva detto guardandolo dritto negli occhi – voi non avete sposa né eredi, io devo scegliere un marito degno del mio lignaggio prima che mio fratello salga al trono e pretenda di farlo al posto mio. Ho appena fatto la mia scelta, se voi accettate.”

Lui era rimasto senza parole e poi aveva risposto, incredulo:

   “Potessi scegliere anche fra tutte le dame del mondo, non vorrei altra che voi, mia signora. Non comprendo però la vostra decisione, siete ancora una fanciulla e di aspetto meraviglioso, qualsiasi giovane sovrano sarebbe onorato di avervi come sposa, perché riservate a questo vecchio guerriero un simile insperato privilegio?”

   “Voi siete un uomo di bell’aspetto, un guerriero valoroso ed un re giusto e saggio. Il popolo vi ama e non avete pari in quanto a bontà e coraggio. Mio padre narrava le vostre gesta nei campi di battaglia e odo ancora l’eco dei suoi racconti, delle innumerevoli volte nelle quali gli salvaste la vita, a rischio della vostra e di come non siate mai venuto meno in ardimento, devozione e lealtà. Vi ammiro e porto nel cuore da quando ero bambina e vi osservavo allenarvi con lui nel nostro cortile. Non vi ho mai dimenticato e disperavo di trovarvi ancora non ammogliato quando io avessi raggiunto l’età giusta. Il fato mi ha concesso questa grazia e sono doni che vanno presi lestamente.”

   Ricordi meravigliosi. Rianna la rossa era diventata la sua amatissima sposa e adorata regina di Man. Per quanto possibile in tempi così bui, erano stati felici. La differenza di età, che tanto lo aveva turbato, non aveva avuto alcuna importanza.

   Sorrise tristemente alla regina, ancora meravigliosamente bella e vigorosa, mentre le porgeva il braccio per far ritorno insieme nelle loro stanze. Il bel volto era segnato dall’angoscia, più che dagli anni, e gli occhi d’ambra erano velati di malinconia.

   “Tornerà – sussurrò Rianna carezzandogli la mano – un candido unicorno mi ha visitato in sogno, la notte scorsa, mi ha detto di non disperare, mi ha detto che la guerra è finita e che lo riavremo presto, non sarà morto, ma non sarà neanche vivo.”

   “Cavalieri in vista!!” il grido della vedetta li sorprese.

***

   Nella terra degli immortali, là dove i fiori sbocciano tutto l’anno e gli alberi della foresta stillano miele, la Mania trovava a volte il suo riposo, in cima alla collina, all’ombra di un grande sicomoro. Lì la raggiunse Marica e le sedette accanto.

   “La bianca dama delle acque luminose fa visita alla sorella oscura, alla più odiata delle immortali?”

   “Non è la prima volta che accade e non sarà di certo l’ultima – rispose la fata, estraendo dal mantello una scacchiera d’argento con scacchi d’oro e di cristallo – nessuno ti odia Mania, sulle tue spalle è il peso dell’equilibrio dell’universo, tutti gli immortali lo sanno bene. Non v’è colpa, solo merito in ciò che fai ogni giorno.”

   Le due dame iniziarono a giocare con entusiasmo. La Mania vinse una partita dopo l’altra e Marica, ogni volta, in pagamento della sconfitta eseguì con le sue arti magiche ogni impresa che l’oscura sorella le impose. Bonificò terreni, costruì strade rialzate attraverso le paludi, innalzò nuove isole dagli abissi, eresse ponti incantati sui burroni, fece sgorgare fiumi e sorgenti. Alla fine la fata propose un’ultima partita, la cui posta, però, sarebbe stata scelta dalla vincitrice solo alla fine. Questa volta la Mania perse.

   “Cosa vuoi che la morte ti conceda, mia astuta e luminosa sorella delle acque?”

   “Un vecchio padre è chiamato ad un’impresa assai ardua. Starai lontana da lui per una luna intera a partire da oggi, e mi lascerai fare quando, nello stesso arco di tempo, io gli infonderò speranza e vigore.”

   La Mania rimase in silenzio per alcuni istanti, poi sorrise: “Sia come desideri, il suo fato è incerto, gli dei non hanno ancora deciso, mi è quindi concesso fare ciò che mi chiedi.”

***

   Turan, il valoroso erede di Man, giaceva  finalmente nel suo letto, i capelli ramati sparsi sul cuscino. Dal bel volto pallido era infine sparita l’espressione di atroce sofferenza, merito delle erbe che lo avevano fatto cadere in un sonno profondo.

   “Sua altezza non soffre più vostre maestà – riferì il guaritore agli angosciati sovrani - purtroppo, però, non possiamo fare altro per lui, le ferite sono troppo gravi. Gli unguenti e le arti di taumaturgia a noi note sono impotenti, se non nel rendere il trapasso dolce e indolore.”

   Da quel momento in poi Rianna e Lugan non udirono altro. Tutte le spiegazioni della scienza di guarigione caddero nel vuoto. Il loro unico figlio stava morendo. Non c’era spazio per altro.

   La battaglia era vinta, la grande guerra finita. I valorosi figli degli uomini, con il loro coraggio, avevano sconfitto le orribili armate di orchi e la magia oscura che li animava. Morgus il terribile, il mago che nessun figlio di uomo può uccidere, si era ritirato nelle nebbie nere da cui era emerso. Le campagne, intrise del sangue di uomini e orchi, ardevano avvolte dalle nebbie rosse delle pire funebri. Nelle valli ancora risuonava l’eco delle grida di guerra ed il fragore della battaglia, mentre i sopravvissuti cercavano i feriti tra i cadaveri. La guerra era vinta, la notizia si diffondeva, venti anni di sofferenza e sangue erano terminati. Ovunque si respirava speranza, la gioia di avere di nuovo un futuro riempiva i cuori. Non per Rianna e Lugan.

   Turan stava morendo, sprofondato nel suo sonno innaturale. Gli restavano poche settimane di vita ancora, e questo grazie alle erbe dei migliori taumaturghi del regno, ma senza alcuna speranza di guarire. Non sarebbe stato possibile neanche dirgli addio, se non causandogli atroci sofferenze, sospendendo la somministrazione delle tisane che lo mantenevano nel dolce oblio.

   “Non posso sopportarlo, non posso accettarlo. Deve pur esserci qualcosa, qualcuno, un modo per salvarlo – Lugan, accasciato sul trono, consumato dal dolore, guardò afflitto la sua sposa, leggendo la sua stessa disperazione nell’amato volto – Cosa non abbiamo tentato? Quale strada abbiamo trascurato?”

   “La magia antica del popolo fatato – Rianna rispose con un filo di voce - l’unicorno è tornato da me stanotte, dice che vi è ancora un filo di speranza, ma solo nella terra degli immortali.”

   “Le fate guaritrici? Ma certo! Si dice che continuino a curare i malati che le supplichino.”

   “… ma Turan perirebbe durante il viaggio, perché è troppo grave per essere spostato. E le fate non lasciano mai la loro terra…”

   “… perché al di fuori di essa sono mortali – la interruppe il desolato consorte – e vulnerabili esattamente come noi.”

***

   Un filo di speranza, la più debole delle luci, ma sufficiente a rompere l’oscurità che aveva invaso il cuore del re. Lo spirito dell’antico guerriero si era destato, indomito, inarrestabile. Pregò tutti gli dei e gli immortali di concedergli un’ultima stilla della sua forza di un tempo, perché l’impresa sarebbe stata ardua anche per un giovane nel fiore degli anni. Le sue preghiere furono ascoltate.

   Tre pariglie di cavalli veloci come il vento avevano trainato il carro reale per tre giorni e tre notti, senza mai fermarsi, attraversando le campagne devastate dalla guerra, le colline insanguinate, i villaggi saccheggiati e le lande desolate del regno. E ancora al galoppo guadando i fiumi, oltrepassando le foreste e le valli della terra di nessuno, fino a penetrare nel bosco degli antichi e raggiungere il grande fiume incantato, sacro confine della terra degli immortali. In un solo punto era concesso ai figli di donna di osare implorare il permesso di calpestare il suolo fatato, ed era ai piedi della porta di pietra, dove il cocchio arrestò la sua folle corsa contro il tempo.

   L’accesso si ergeva isolato in una radura luminosa a bordo fiume. Incurante della stanchezza e dei dolori causati dal viaggio, Lugan si preparò velocemente per eseguire il rituale di supplica. Scalzo, solo, senza cibo né ornamenti, così come imponeva la regola, si presentò davanti alla soglia e si inginocchiò, percuotendone tre volte il battente d’argento, che aveva forma di testa di unicorno. Si cosparse quindi il capo di terra e cantò i versi antichi:

   Io sono il vento che soffia sul mare

   io sono un’onda dell’oceano

   io sono il mormorio dei flutti del fiume

   io sono un raggio di sole

   io sono un lago nella pianura

   io sono un albero nella foresta

   io sono la pioggia che bagna la terra

   io sono un uccello che vola sulla radura

   io sono un padre che ama il figlio

   io supplico di entrare nella terra fatata

   lucenti, lucenti immortali

  

La porta si aprì senza emettere alcun rumore e si richiuse alle sue spalle subito dopo. Una piccola imbarcazione bianca, senza nocchiero né remi, lo attendeva sulla riva e lo condusse dolcemente sull’altra sponda. Seguì con passo veloce il sentiero fiorito all’interno della foresta, camminò per tutto il giorno, finché raggiunse finalmente la riva del lago degli unicorni, dove crollò a carponi.

   “Vi supplico lucenti immortali, abbiate pietà di un vecchio padre, aiutatemi a salvare mio figlio.”

Scalzo e in ginocchio il re pregò, svenne e si riprese, implorò ancora, ancora e ancora, digiunando e supplicando.

All’alba del quarto giorno il vecchio sovrano pianse disperato, e le sue lacrime caddero sull’acqua del lago, dove infine apparve riflesso un volto bellissimo di fanciulla.

   “Mia lucente signora, vi supplico, abbiate pietà di me, salvate mio figlio, prendete in cambio la mia vita o qualsiasi cosa vogliate.”

   “Non piangete Lugan, il vostro amore è così forte che grida e squarcia il velo che da secoli separa i nostri mondi, il vostro cuore è puro. Farò quanto mi chiedete. Verrò stanotte stessa al capezzale del principe. Attingete un po’ d’acqua di questo lago, versatela in una scodella vicino al suo letto prima del sorgere della luna e sarà salvo.”

   Mia signora, tre pariglie di cavalli lanciati in una corsa forsennata mi hanno condotto qui in non meno di tre giorni e tre notti, come posso riuscire nellimpresa che mi chiedete?

   Un cavallo fatato vi condurrà veloce come il vento. Non voltatevi e non parlate per tutto il tragitto. Fate quanto vi ho detto, agite in fretta. Andate, subito, ora!

   Il re obbedì mormorando ringraziamenti come fossero una litania, vuotò la sua borraccia e la riempì con l’acqua del lago, appena si fu voltato vide avanzare verso di lui un magnifico cavallo, bianco come la luna, con finimenti d’oro e d’argento. L’animale si accovacciò a terra per consentirgli di salire e partì subito al galoppo veloce come il vento. La cavalcatura fatata era prodigiosa, il paesaggio scorreva velocemente, ma il re non ne risentiva, era come se scivolasse dolcemente sull’aria. Con la preziosa ghirba stretta al petto, nel più assoluto silenzio, chiuse gli occhi e pregò mentalmente tutti gli dei e gli spiriti della natura di assisterlo nell’impresa, di aiutarlo a salvare Turan.

   Giunse nel suo castello appena in tempo, quando la luna era prossima al sorgere. Il cavallo lo condusse fino alla stanza del figlio, accovacciandosi di nuovo per aiutarlo a scendere. Solo allora il vecchio re osò parlare, e fu per ringraziare lo splendido destriero.

   Poi si affrettò al capezzale del figlio, dove trovò Rianna assopita su una sedia. Non si concesse neanche un attimo di esitazione, prese la ciotola con la quale Turan veniva rinfrescato, la vuotò in terra e la riempì con il contenuto della borraccia, ponendola vicino al giovane addormentato.

Parte 2


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