Scommetto di aver già detto più di una volta come, nella mia adolescenza, mentre tutti avevano idoli molto più salutari, i miei erano gentaglia come Clint Eastwood e Woody Allen. Il primo è sempre stato l'uomo che avrei voluto diventare ma che ho sempre saputo non sarò mai, mentre il secondo la mente che ambivo di avere ma la cui saggezza sarebbe stata irraggiungibile - anche se le varie cazzate che ha fatto nel suo privato alle volte mi consolano e non poco. Allen è stato anche il cineasta che ho approfondito maggiormente nel minor tempo possibile, complice anche un certo periodo della mia prima adolescenza molto particolare, il che ci porta a questo film. Che non è solo un film bellissimo, ma anche il primo film dell'ebreo newyorkese più ipocondriaco di sempre che ho visto al cinema. Che per alcuni di voi sembrerà poco, ma per me, che tutti i suoi film li ho reperiti in dvd nella rifornitissima biblioteca della mia città, era un evento a dir poco inimmaginabile. E l'ho fatto con un film che inizialmente mi era piaciuto, anche se fino a un certo punto, ma che col proseguire degli anni ho saputo apprezzare in maniera a dir poco inusuale, anche se non rientra fra i film della mia vita.
Chris, dopo essersi ritirato dal tennis professionistico, diventa istruttore di un club frequentato da gente facoltosa. Qui ha modo di conoscere il ricco Tom Hewett e la di lui sorella Chloe, con la quale finisce per fidanzarsi. Ma dopo aver conosciuto Nola, la fidanzata di Tom, le cose prendono una piega morbosa e imprevista...
"Chi disse preferisco avere fortuna che talento percepì l'essenza della vita. La gente ha paura di ammettere quanto conti la fortuna nella vita. Terrorizza pensare che sia così fuori controllo. A volte in una partita la palla colpisce il nastro e per un attimo può andare oltre o tornare indietro. Con un po' di fortuna va oltre e si vince. Oppure no e si perde." Un incipit così non può che appartenere a un film o un'opera grandiosa, credo sia una di quelle frasi che ognuno sognerebbe di scrivere almeno una volta nella vita. E come tutte le cose grandi, parte da un qualcosa di ininfluente, come può essere una partita di tennis. Perché anche se stai giocando a Wimbledon, cos'è alla fine la traiettoria di una pallina gialla se paragonata alla grandezza di quella pallina che è il mondo? Nulla. Ma come tutte le cose piccole, diventa un collegamento per quelle più grandi che danno peso e fondamento al pensiero e, con esso, alla vita. Woody Allen questa frase superba la realizza a settant'anni, dopo una carriera segnata da dialoghi fulminanti, senza contare che qualche anno dopo avrebbe dato ancora una volta il meglio di sé con Basta che funzioni e la fantastica sequenza iniziale. Ma soprattutto, dimostra di saper rinnovarsi continuamente. Lui che, come dicono alcuni, ha sempre fatto lo stesso film... ma anche qui sta in parte la sua grandezza. Perché è vero che la maggior parte dei film di Allen hanno dei topoi e degli elementi ricorrenti, ma lui riesce a trattare cose che forse aveva già analizzato in precedenza sotto una nuova luce, facendoli apparire totalmente inediti. Qui imbastisce una storia d'amore illecito con le venature del thriller, costruendo magari un intreccio che non sarà particolarmente intricato, ma porta con sé delle riflessioni molto pesanti e sentite. Forse è per questo che la prima volta che lo vidi, a quindici anni, non rimasi colpito come dovuto, ma l'aver letto Delitto e castigo mi ha fatto comprendere la grandezza di questa pellicola e la totalità dell'incipit che ho riportato all'inizio di questo paragrafo. Perché Allen è fortemente collegato con l'opera di Dostoevskij (anche se il suo romanzo che preferisco è I fratelli Karamazov), ne gira il contrario e fa affidamento sulla sua visione pessimistica del mondo, lasciando un finale che non dà nessuna speranza o illusione di redenzione. Se nell'opera del Russo il protagonista Raskolnikov trovava verso la fine una parvenza di salvezza e redenzione nella fede, confrontandosi col proprio delitto e accettando il castigo che ne sarebbe seguito, qui avviene tutto il contrario. Se Dostoevskij usa l'esistenzialismo cristiano, Allen si affida all'ateismo. Senza tanti giri di parole, possiamo dire che questo non è altro che il film sull'ateismo, al di là di tutte le sfaccettature che la storia va a toccare, perché ciò che ne rimane alla fine è proprio quello. Da qui anche il senso e la potenza del monologo fuori campo detto a inizio film. Chris è un personaggio totalmente opposto a Raskolnikov, lo si può considerare senza mezzi termini un arrampicatore sociale che per via dell'ideale di successo a cui si è preposto arriverà a compiere atti inumani. E' un freddo calcolatore che però finirà per innamorarsi, anche se della persona sbagliata per le proprie ambizioni, ma saprà seppellire anche quelle sotto la sua smania di successo, pur venendo perseguitato fino alla fine dai fantasmi del suo delitto. Ma sta proprio nella risoluzione dell'indagine la grandezza assoluta di questo film, perché, come ci fa specificare fin da subito, Allen mette tutti i suoi personaggi nelle mani del Caso. E' forse un caso che Chris e Nola si incontrino, ma sarà un caso che tutta la vicenda alla fine trovi quella risoluzione. Questo perché, secondo Allen, le nostre vite sono mosse unicamente dal caso. Non c'è Dio o religione che possano darci un'attenuante, ci siamo solo noi con le nostre scelte e le nostre vite, barchette di carte disperse in quella caotica corrente marina che è l'esistenza. E spesso queste esistenze sono travagliate da molti delitti ma da ben pochi castighi, forse perché esistere coi propri demoni è, fin dal principio, il castigo più grande che ci possa capitare.
Forse la grandezza di Allen non la raggiungerò mai (anzi, sicuramente) ma se non altro, a vedere come ha usato la Johansson, posso consolarmi dicendo che abbiamo gli stessi gusti in fatto di donne. Almeno quello.Voto: ★★★★★