Matsuo Bashō, nome d’arte di Matsuo Munefusa, nasce a Iga Ueno, cittadina governata dalla famiglia Tōdō, nel 1644, all’inizio del periodo Edo; Munefusa, all’età di tredici anni, perse il padre, Yozaemon, che apparteneva al ceto samuraico, ma con un rango alquanto basso. Alcuni anni dopo la sua morte, Bashō entrò al servizio di un giovane della famiglia Tōdō, Kazue Yoshitada; secondo gli storici della letteratura, la sua posizione era quella di semplice cuoco o sguattero.
Grazie al comune interesse per le lettere, il rapporto con Yoshitada, che aveva solo due anni più di Bashō e usava il nome d’arte di Sengin, si fece diretto, letterario e più vicino. Tōdō Sengin apparteneva infatti alla scuola delle poesie dell’haikai di Kyōto, tenuta dal maestro Kitamura Kigin (della scuola di Teimon); fu in quegli anni che Munefusa cominciò a comporre le prime opere di haikai.
La sua esistenza subì tuttavia un radicale cambiamento nel 1666, quando a soli 25 anni morì il suo padrone. Bashō abbandonò allora il servizio e, dopo un periodo di cui si sa poco (gli studiosi suppongono che abbia trascorso questi anni dedito agli studi, approfondendo la conoscenza anche dei testi classici cinesi e della filosofia Zen), fra il 1674 e il 1675 si trasferì a Edo, l’attuale Tōkyō, dove ebbe inizio una fase nuova della sua vita e della sua poetica.
Affermatosi inizialmente come apprezzato autore e maestro di haikai, caratterizzati da uno stile inconsueto e pieni di arguti giochi di parole e di citazioni, dopo alcuni anni si mise alla ricerca di una poeticità nuova, non più finalizzata a ricavare un effetto brillante, ma a qualcosa di più profondo e sentito.
Nel 1680 lasciò la casa in cui abitava nel quartiere centrale di Nihonbashi e si trasferì fuori città, nella zona di Fukagawa, allora ancora immersa nella natura. Mentre a Nihonbashi, centro commerciale della nuova e dinamica città, Bashō si era mantenuto principalmente come maestro di haikai – il cosiddetto tenja, che organizzava presso gli allievi e i cultori benestanti di renku – a Fukagawa iniziò invece una vita semplice e volutamente povera, lontano dalla mondanità ed in solitudine. Nella primavera del 1681 l’allievo Rika gli regalò una musacea (famiglia di piante cui appartiene anche il banano), in giapponese bashō; la pianta crebbe rigogliosa nel giardino e per questo la casa di Fukagawa venne chiamata Bashō-an, ovvero “casa di Bashō”. Da allora il poeta cominciò a firmarsi col nome d’arte di Bashō.
Alla ricerca di nuove espressioni, Bashō approfondì la conoscenza dello Zen, della poesia e della filosofia cinese; determinante fu anche lo stile di vita nella sua solitaria Bashō-an.
Nel 1682, però, un grande incendio propagatosi in una vasta zona di Edo distrusse anche la sua casa. Il poeta fu costretto a partire per Kai, l’attuale provincia di Yamanashi, dove un allievo, Takayama Biji, lo ospitò. L’anno seguente tornò nella casa di Fukagawa, ricostruita grazie ai contributi degli allievi, ma, da allora in poi, il desiderio di viaggiare non lo lascio più: non a caso, Bashō è spesso descritto come “poeta del viaggio”.
Dopo il viaggio del 1684, da cui scaturì “Nozarashi kikō” “Diario di viaggio sotto la pioggia e il vento“, la maturazione artistica di Bashō registrò nuovi sviluppi proprio nei diari di viaggio. Diverse opere di Bashō sono “diari di viaggio”; tra queste Diario di viaggio sotto la pioggia e il vento (1684-85), “Oi no kobumi” “Il taccuino della gerla” (1687) e il famoso Oku no hosomichi “Lo stretto sentiero per Oku” (1689), che comprendono le impressioni sui luoghi, sugli incontri e sulla natura, scritte in una prosa alquanto stilizzata, e brevi poesie ispirate dal viaggio. Questi diari non sono però soltanto appunti dei singoli spostamento, bensì veri e propri documenti spirituali dello sviluppo di una poetica che Bashō andava scoprendo e approfondendo attraverso le esperienze di viaggio; l’apice di questo genere, e anche il momento più alto di tutta la produzione del poeta, è “Lo stretto sentiero per Oku”.
I viaggi costituivano per Bashō l’occasione per vedere la natura e i luoghi storici, venendo a contatto con la vita della gente e seguendo le tracce lasciate dalla storia e dai poeti del passato. In altre parole, occasioni per vivere intensamente sentimenti reali ed al contempo memorie letterarie, come gli accadeva di fronte alle numerose difficoltà che incontrava viaggiando e che gli svelavano l’estrema essenza della vita.
È proprio durante uno dei suoi viaggi, questa volta vero il Kyūshū, che Bashō incontrò l’ultima difficoltà, che di lì a poco lo avrebbe condotto alla morte a Ōsaka nel 1694: “Ammalatomi in viaggio / il mio sogno corre ancora / qua e là nei campi spogli”, è il suo ultimo haiku, che dettò a un allievo quattro giorni prima di spirare, confermando ancora una volta il forte desiderio di viaggiare negli spazi terrestri per scoprire quelli trascendenti.
Per comprendere la novità ed il significato dei lavori di Bashō e della sua scuola, chiamata Shōmon, è indispensabile conoscere il periodi in cui il poeta visse e la cultura che caratterizzò gli anni Genroku (1688-1704). Non è infatti casuale che proprio in questo periodo si sia sviluppata la poetica di Shōmon, in breve Shōfū, dallo Stretto sentiero per Oku in poi.
Gli anni Genroku furono un’epoca segnata da forti istanze di rinnovamento per la cultura che, agli albori del XVIII secolo, doveva affrontare una fase storico-sociale nuova.
Era l’inizio di un lungo periodo di pace, senza guerre civili interne, senza minacce dall’esterno e senza che lo stesso Giappone, sotto lo Shogunato Tokugawa, mostrasse alcuna intenzione di espandersi verso il continente. Con lo stabilizzarsi del sistema socio-politico dell’Edo Bakufu, le città commerciali cominciarono così a godere di uno sviluppo sereno e , con il sorgere della classe borghese, nacquero nuove tendenze letterarie e di pensiero: per quanto infatti i letterati provenissero ancora principalmente dalla classe dominante dei Samurai, come era stato per Bashō e per molti dei suoi allievi, stava emergendo un pubblico nuovo, un pubblico “popolare”, composto di commercianti e destinato ad assumere la responsabilità della diffusione, anche attraverso canali diversi, di un nuovo sistema culturale, espressione di una sensibilità resa manifesta anche attraverso inediti registri linguistici.
L’haikai dello Shōmon si colloca in questo contesto culturale, a fianco della drammaturgia di Chikamatsu Monzaemon (1653-1724), che diede voce alle passioni degli uomini tormentati dalle contraddizioni sociali, e ai romanzi del genere ukiyo zōshi (brevi romanzi popolari illustrati), dedicati all’analisi degli aspetti umani nella vita dei vari ceti sociali, di Ihara Saikaku (1642.1693) che esordì, come poeta funambolesco di haikai della scuola Danrin, riuscendo a comporre 23500 ku (versi) in un giorno.
La poetica di Bashō, secondo una diffusa interpretazione dell’estetica dello Zen espressione del mondo di wabi-sabi, si sviluppò in questo contesto culturale.
Il concetto di wabi o sabi è quello di una bellezza non esuberante, ma piuttosto sobria, quieta e tendenzialmente arcaica: non implica una tristezza semplicemente sentimentale o malinconica, ma qualcosa che evoca una sensazione nostalgica. Intorno a questa estetica, la scuola di Bashō ha sviluppato altri concetti, per esempio: hosomi, finezza della sensibilità; shiori, delicatezza dell’espressione; nioi, profumo o sensazione espressa nella poesia; omokage, immagine con allusione storica.
Il punto d’arrivo del Bashō degli ultimi anni, espresso in particolare nelle due raccolte della sua scuola. Sumi dawara “Il sacco in paglia di carboni” (1694) e Zoku Sarumino “Il seguito al mantello di paglia della scimmia” (1698, pubblicato postumo), è, non a caso, karumi, leggerezza, con cui il poeta mirava a esprimere in parole d’uso quotidiano e comune, prive di retorica, bellezze ed emozioni che si scoprono in momenti rivelatori nella vita reale.
Una poetica dal linguaggio chiaro e conciso, essenziale, imbevuta di elementi del vivere quotidiano, spesso banali, attraverso cui si colgono però i segni delle emozioni del poeta, immerso nella natura e in costante colloquio con gli antichi, come sospeso tra due mondi.
Written by Alberto Rossignoli