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Matteo Renzi, Stefano Fassina e le risposte che mancano (l'editoriale di Claudio Sardo)

Creato il 06 gennaio 2014 da Tafanus

In questa storiaccia di "raffinati insulti" del bischero di Frignano, la cosa più grave non è il "Fassina Chi" in assoluto, ma il fatto che questo ometto, democristiano fin nei brufoli mutuati da Bruno Vespa, non si renda ancora esattamente conto di cosa abbia detto e fatto, e rivendichi orgogliosamente il diritto di rifarlo, visto che "non vuole rinunciare alle battute".

Un consiglio da amico: se vuole fare il battutista, si candidi a fare il portavoce del comico di Genova, o vada a lavorare direttamente nel ramo (il Bagaglino, con uno come lui, potrebbe rifiorire), e lasci perdere la politica. Non ricordo una sola battuta di Berlinguer, ma tutti siamo pronti a scommettere almeno dieci centesimi che la Storia fra qualche decennio si ricorderà ancora di Enrico Berlinguer, ma di Renzi gli storici, guardandosi in giro con aria smarrita, chiederanno ai vicini di tavola: "Renzi chi?" Tafanus

Renzi-chi

Le risposte che mancano  (di Claudio Sardo - l'Unità)

La battuta che ha provocato le dimissioni di Fassina è stata davvero infelice. Ma preoccupa di più che Renzi non si renda conto della ferita arrecata a quanti nel Pd considerano le questioni poste dal viceministro serie e meritevoli di risposte, che tuttora mancano. Nessuno può chiedere al neosegretario di cambiare un registro comunicativo che si è rivelato fin qui vincente. Il problema però è che, da leader, non può pensare di eludere le domande che appartengono al normale confronto democratico, per di più usando toni liquidatori verso chi sta nel suo partito e non si trova d’accordo su una scelta, o su una strategia. Renzi ha ribadito, anche ieri, che la sua priorità è imprimere un forte cambiamento al corso della politica. E che intende subordinare tutto a questo obiettivo.

Ma Fassina gli aveva chiesto, appunto, di essere conseguente, di non limitarsi a sferzare il governo il più delle volte con toni poco amichevoli, insomma di rompere quel muro di separazione e di cambiare la squadra ministeriale del Pd per metterla in sintonia con l’esito delle primarie. A Renzi non piace parlare di rimpasto: ha ripetuto ieri che lo considera un rito della vecchia politica da rottamare. Tuttavia il suo giudizio estetico, pur così netto, resta un passo indietro rispetto ai temi sollevati dal suo interlocutore. In cosa consiste l’auspicio di un radicale cambiamento politico, se chi lo propone non vuole sporcarsi le mani oggi con il governo, e anzi non perde occasione per disprezzare la sua maggioranza? Si ritiene sul serio che la legislatura possa superare il 2014 con un Pd che dia l’impressione di ritenere l’attuale quadro politico, non già l’esito di una rottura nel centrodestra che ha messo all’angolo Berlusconi, bensì l’ingombrante retaggio di un passato da dimenticare?

Fassina ha posto queste domande non in astratto, ma all’indomani del varo della legge di Stabilità, che il nuovo gruppo dirigente del Pd ha accompagnato in Parlamento gareggiando nelle critiche (le famose «marchette»), talvolta persino nella delegittimazione. È a questo che Renzi non ha finora risposto con chiarezza. E per questo il suo «Fassina chi?» è suonato più come una reazione stizzita e liquidatoria che non come una battuta irriverente. Chi guida un partito ha responsabilità maggiori di tutti gli altri. L’azione di cambiamento che il leader deve promuovere non può essere disgiunta dalla costruzione continua del consenso democratico anche all’interno del partito. Aver vinto le primarie così nettamente non legittima un potere assoluto, né autorizza a interpretare il mandato come una cambiale in bianco.

Una leadership forte è certamente un valore aggiunto, a condizione però che non consideri il partito come un peso, come un ostacolo nel rapporto diretto con l’opinione pubblica. Renzi ha mostrato intelligenza nell’offrire a Cuperlo la presidenza e nel confermare i capigruppo di Camera e Senato: tuttavia non bastano gli organigrammi a corroborare l’unità. È necessario uno stile, un metodo, anche per la comunicazione interna. Il Pd è il solo partito nazionale con struttura democratica. Ma mantenere questa caratteristica in un contesto dove i principali avversari sono rappresentati da due padri-padroni (Berlusconi e Grillo) non è facile. Il rischio che anche il Pd degeneri verso forme di leaderismo e populismo non è scongiurato per sempre. Ci vuole cura, e cultura democratica.

Restano poi le questioni politiche sul rapporto tra il Pd, il governo e la durata della legislatura. Fassina non poteva che dimettersi, per dignità, di fronte ad un segretario che gli ha platealmente negato una risposta. Renzi, per parte sua, può legittimamente cercare di preservare un certo distacco dal governo in carica e dalla maggioranza, anche nel caso si raggiungesse l’accordo sul programma del 2014, a partire dalla riforma della legge elettorale. Ciò che però deve sciogliere è il groviglio di contraddizioni che questo distacco politico produce nella credibilità e nell’efficacia del governo. Quello di Enrico Letta non può (e non deve) diventare un esecutivo «tecnico» o un governo «amico» proprio ora che Berlusconi è finito all’opposizione e si appresta a rincorrere Grillo nell’anti-europeismo e nel radicalismo anti-sistema.

Certo, se la minaccia di far saltare tutto oppure di ricorrere alle maggioranze variabili è soltanto la tattica di Renzi per strappare condizioni migliori ad Alfano, vuol dire che abbiamo scoperto un abile negoziatore. Comunque, più il programma di Letta per il 2014 avrà l’impronta del Pd, più il suo governo acquisterà un carattere politico, nel senso che il Pd risponderà maggiormente dei risultati positivi come degli insuccessi.

L’alternativa a questo scenario è quello di un Renzi che, invece, tira la corda per spezzarla. O meglio, per costringere Alfano a spezzarla. In questo caso il gioco di sponda sarebbe con Berlusconi: riforma elettorale e subito al voto. Al gioco non dovrebbero starci né Letta, né il Nuovo centrodestra (che oggi sono di Berlusconi i principali bersagli). Di tutto questo gli organi del Pd devono discutere. E presto. L’argomento che le primarie hanno dato mandato pieno a Renzi non può essere opposto a chi chiede un confronto: il segretario peraltro dispone di una maggioranza che lo tiene al sicuro. Piuttosto, anche Enrico Letta deve dire la sua. Non può accettare che il Pd tratti pure lui con questo distacco critico. Se Letta intende rivendicare di aver messo ai margini Berlusconi e di aver chiuso il «ventennio», non può cedere sulla caratura politica del governo e sull’inclusione della sua leadership nel nuovo corso Pd.

Neppure Letta, del resto, è obbligato a restare a Palazzo Chigi a qualunque condizione. Al tavolo del programma 2014 ha interesse a costruire un quadro di riforme coerenti, non limitate alla sola legge elettorale. E anche la sua sfida personale può aiutare il Pd. Come può aiutarlo una sinistra che riorganizza le proprie idee e le mette a disposizione senza correntismi, magari sull’abbrivio di questo atto di ribellione compiuto da Fassina.

(Claudio Sardo - l'Unità)


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