Molto si è parlato, negli ultimi giorni, della manifestazione di Milano dello scorso 18 ottobre che, per la prima volta, ha reso evidente la saldatura tra l’elemento di massa rappresentato dalla Lega Nord e il panorama frammentato, ma ideologicamente sempre più influente, dell’estrema destra dichiaratamente neofascista o neonazista.A dispetto del tenore assunto dal dibattito in merito, sapientemente indirizzato dai media al servizio del capitale monopolistico, il corteo razzista di Milano non ha rappresentato neanche di lontano la prova di forza attesa dagli organizzatori. Allo sforzo economico e organizzativo imponente della Lega ha fatto riscontro una partecipazione in definitiva modesta, incapace di riempire anche soltanto l’area limitata di una Piazza del Duomo di per sé largamente insufficiente a contenere non solo i centomila partecipanti trionfalmente dichiarati da Matteo Salvini dal palco, ma neppure i quarantamila ventilati dalla questura.La circostanza non deve stupire: la smobilitazione dei partiti di massa, elemento determinante già del “Piano di rinascita democratica” della loggia P2 di Gelli, ha condotto a una tale consunzione della capacità di mobilitazione degli apparati politici da imporre una variazione nell’interpretazione dei dati quantitativi legati alla politica. Tanto il crollo delle adesioni al Partito Democratico quanto la Piazza del Duomo mezza vuota di Salvini rappresentano, in ultima istanza, non la misura del fallimento di due prospettive politiche, quanto piuttosto quella del successo di un unico disegno reazionario di cui entrambi i partiti citati fanno consapevolmente parte.Se però ci si riferisce allo stato attuale della Lega Nord, alla sua evidente capacità di attrarre consensi e al raffinato disegno politico di cui essa è il perno, un approccio superficiale non può evitare all’osservatore un moto di stupore: un partito politico che si sarebbe detto defunto, travolto dagli scandali d’inizio 2012, pare aver trovato nuove energie ed essere stato in grado di compiere il processo di rinnovamento necessario per rientrare nell’agone della politica che conta. Ed effettivamente non si può negare che l’opposizione radicale della Lega dell’ultimo Bossi al governo Monti, determinatasi in virtù dello sdegno e del panico del ceto medio bottegaio e della piccola imprenditoria del nord che da sempre ne ha costituito la base sociale per le misure di austerità varate dai “tecnici” su ispirazione della Trojka europea, abbia prodotto una fase di scontro reale tra il partito e i settori dominanti della società e che questi ne avessero allora decretato la messa a morte, alimentando una spirale di scandali su elementi di contorno della fase politica che andava allora chiudendosi – la lunga transizione conosciuta come “seconda repubblica” – capaci di delegittimare l’intero gruppo dirigente leghista, di farlo sprofondare nel ridicolo senza per nulla infirmare la solidità delle relazioni strutturali andate consolidandosi nella stagione del berlusconismo di cui la Lega è stata un indispensabile puntello.È da individuare nei mesi successivi al febbraio 2012, nell’affermarsi della segreteria Maroni e nel suo sapiente lavoro di ricucitura delle relazioni con i gruppi dominanti della società nazionale, la radice della rinascita della Lega di cui oggi si vedono i frutti. L’attuale presidente della Regione Lombardia, sotto i buoni uffici del sindaco di Verona Tosi, uomo di Banca Intesa nelle fila della Lega, ha saputo infatti efficacemente interpretare la fase e, tramite una serie di pubblici e privati atti di vassallaggio, rassicurare i gruppi dominanti della società della fedeltà del suo partito, della sua affidabilità come gestore dello scontento popolare alimentato dal precipitare della crisi economica e dalle conseguenze delle manovre di austerità dei governi manovrati dalla Trojka. La Lega, infine riammessa tra le formazioni politiche “rispettabili” dal tribunale dell’alta borghesia, era dunque pronta a vivere una trasformazione epocale che lo stesso Maroni, compromesso con la stagione del governo in coalizione con Berlusconi, non era in condizione di guidare. Di qui il promoveatur ut admoveatur di Maroni alla Regione Lombardia e l’ascesa del “rottamatore” Salvini. Tutto secondo copione.Il compito di Salvini è sostanzialmente quello d’imporre a un partito figlio di una stagione politica defunta, emerso con l’appoggio determinante del revanscismo della Germania di Bonn e caratterizzato dalla spinta alla frammentazione dell’unità nazionale italiana, una rivoluzione copernicana in grado di porlo all’altezza del nuovo compito di disciplinare i ceti medi di tutto il paese, già base materiale del fascismo mussoliniano, in funzione degli interessi delle classi dominanti. Un compito per assolvere il quale le premesse sono nell’abbandono dell’insostenibile, obsoleta retorica secessionista e nell’individuazione di nemici comuni contro cui indirizzare la collera carica di terrore delle classi medie in via di proletarizzazione. Nemici, quelli di cui necessita la Lega di Salvini, sempre a portata di mano dell’agitazione reazionaria: le “lobbies mondialiste” da un lato, gli immigrati che rubano il lavoro dall’altro. Si tratta, in sintesi, di far assumere a una forza politica espressione di comunitarismo e localismo reazionari i connotati del fascismo dichiarato, esplicito, non più mascherato. Ed è stata questa necessità a offrire a Salvini il terreno per l’incontro ideologico e politico apparentemente impossibile tra la Lega Nord post-secessionista e l’estremismo di destra di marca neofascista e neonazista.L’esempio cui la Lega di Matteo Salvini s’ispira è notoriamente il Front National di Marine Le Pen, un partito figlio di circostanze storiche molto diverse da quelle italiane, nato negli anni ’70 dalla fusione delle sigle della destra fascista francese sul modello del MSI italiano e dall’incontro dei vecchi collaborazionisti della repubblichina nazi-fascista di Vichy durante l’occupazione tedesca con i boia colonialisti dell’OAS, reduci della stagione fallimentare delle guerre coloniali francesi della seconda metà del XX secolo.
Molto si è parlato, negli ultimi giorni, della manifestazione di Milano dello scorso 18 ottobre che, per la prima volta, ha reso evidente la saldatura tra l’elemento di massa rappresentato dalla Lega Nord e il panorama frammentato, ma ideologicamente sempre più influente, dell’estrema destra dichiaratamente neofascista o neonazista.A dispetto del tenore assunto dal dibattito in merito, sapientemente indirizzato dai media al servizio del capitale monopolistico, il corteo razzista di Milano non ha rappresentato neanche di lontano la prova di forza attesa dagli organizzatori. Allo sforzo economico e organizzativo imponente della Lega ha fatto riscontro una partecipazione in definitiva modesta, incapace di riempire anche soltanto l’area limitata di una Piazza del Duomo di per sé largamente insufficiente a contenere non solo i centomila partecipanti trionfalmente dichiarati da Matteo Salvini dal palco, ma neppure i quarantamila ventilati dalla questura.La circostanza non deve stupire: la smobilitazione dei partiti di massa, elemento determinante già del “Piano di rinascita democratica” della loggia P2 di Gelli, ha condotto a una tale consunzione della capacità di mobilitazione degli apparati politici da imporre una variazione nell’interpretazione dei dati quantitativi legati alla politica. Tanto il crollo delle adesioni al Partito Democratico quanto la Piazza del Duomo mezza vuota di Salvini rappresentano, in ultima istanza, non la misura del fallimento di due prospettive politiche, quanto piuttosto quella del successo di un unico disegno reazionario di cui entrambi i partiti citati fanno consapevolmente parte.Se però ci si riferisce allo stato attuale della Lega Nord, alla sua evidente capacità di attrarre consensi e al raffinato disegno politico di cui essa è il perno, un approccio superficiale non può evitare all’osservatore un moto di stupore: un partito politico che si sarebbe detto defunto, travolto dagli scandali d’inizio 2012, pare aver trovato nuove energie ed essere stato in grado di compiere il processo di rinnovamento necessario per rientrare nell’agone della politica che conta. Ed effettivamente non si può negare che l’opposizione radicale della Lega dell’ultimo Bossi al governo Monti, determinatasi in virtù dello sdegno e del panico del ceto medio bottegaio e della piccola imprenditoria del nord che da sempre ne ha costituito la base sociale per le misure di austerità varate dai “tecnici” su ispirazione della Trojka europea, abbia prodotto una fase di scontro reale tra il partito e i settori dominanti della società e che questi ne avessero allora decretato la messa a morte, alimentando una spirale di scandali su elementi di contorno della fase politica che andava allora chiudendosi – la lunga transizione conosciuta come “seconda repubblica” – capaci di delegittimare l’intero gruppo dirigente leghista, di farlo sprofondare nel ridicolo senza per nulla infirmare la solidità delle relazioni strutturali andate consolidandosi nella stagione del berlusconismo di cui la Lega è stata un indispensabile puntello.È da individuare nei mesi successivi al febbraio 2012, nell’affermarsi della segreteria Maroni e nel suo sapiente lavoro di ricucitura delle relazioni con i gruppi dominanti della società nazionale, la radice della rinascita della Lega di cui oggi si vedono i frutti. L’attuale presidente della Regione Lombardia, sotto i buoni uffici del sindaco di Verona Tosi, uomo di Banca Intesa nelle fila della Lega, ha saputo infatti efficacemente interpretare la fase e, tramite una serie di pubblici e privati atti di vassallaggio, rassicurare i gruppi dominanti della società della fedeltà del suo partito, della sua affidabilità come gestore dello scontento popolare alimentato dal precipitare della crisi economica e dalle conseguenze delle manovre di austerità dei governi manovrati dalla Trojka. La Lega, infine riammessa tra le formazioni politiche “rispettabili” dal tribunale dell’alta borghesia, era dunque pronta a vivere una trasformazione epocale che lo stesso Maroni, compromesso con la stagione del governo in coalizione con Berlusconi, non era in condizione di guidare. Di qui il promoveatur ut admoveatur di Maroni alla Regione Lombardia e l’ascesa del “rottamatore” Salvini. Tutto secondo copione.Il compito di Salvini è sostanzialmente quello d’imporre a un partito figlio di una stagione politica defunta, emerso con l’appoggio determinante del revanscismo della Germania di Bonn e caratterizzato dalla spinta alla frammentazione dell’unità nazionale italiana, una rivoluzione copernicana in grado di porlo all’altezza del nuovo compito di disciplinare i ceti medi di tutto il paese, già base materiale del fascismo mussoliniano, in funzione degli interessi delle classi dominanti. Un compito per assolvere il quale le premesse sono nell’abbandono dell’insostenibile, obsoleta retorica secessionista e nell’individuazione di nemici comuni contro cui indirizzare la collera carica di terrore delle classi medie in via di proletarizzazione. Nemici, quelli di cui necessita la Lega di Salvini, sempre a portata di mano dell’agitazione reazionaria: le “lobbies mondialiste” da un lato, gli immigrati che rubano il lavoro dall’altro. Si tratta, in sintesi, di far assumere a una forza politica espressione di comunitarismo e localismo reazionari i connotati del fascismo dichiarato, esplicito, non più mascherato. Ed è stata questa necessità a offrire a Salvini il terreno per l’incontro ideologico e politico apparentemente impossibile tra la Lega Nord post-secessionista e l’estremismo di destra di marca neofascista e neonazista.L’esempio cui la Lega di Matteo Salvini s’ispira è notoriamente il Front National di Marine Le Pen, un partito figlio di circostanze storiche molto diverse da quelle italiane, nato negli anni ’70 dalla fusione delle sigle della destra fascista francese sul modello del MSI italiano e dall’incontro dei vecchi collaborazionisti della repubblichina nazi-fascista di Vichy durante l’occupazione tedesca con i boia colonialisti dell’OAS, reduci della stagione fallimentare delle guerre coloniali francesi della seconda metà del XX secolo.
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