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Matteo & Tiziano Renzi: tutte le condanne delle società di famiglia

Creato il 23 dicembre 2014 da Tafanus

Il vizietto... se qualcuno volesse trovare una chiave di lettura per la fissazione renziana sull'art. 18, forse potrebbe trovare spunti interessanti in questo articolo di Antonio Rossitto e Duccio Tronci ...

Tiziano, il padre del premier indagato a Genova, non è un caso isolato. Altre imprese della famiglia hanno subito processi e multe

Tiziano-renzi
Ha riunito i devoti iscritti nell’angusta sede del Pd a Rignano sull’Arno, in piazza XXV Aprile. Sulle scrostate pareti alle sue spalle, occhieggiavano i poster di Antonio Gramsci ed Enrico Berlinguer, illustri antenati dell’amato figliolo alla guida della sinistra italiana. Poi Tiziano Renzi (foto a sinistra), il pomeriggio del 16 settembre 2014, ha spiegato al gruppetto di concittadini accorsi che altro non poteva fare: dimissioni irrevocabili da segretario locale del partito.

Quella mattina, la Guardia di finanza di Genova aveva bussato alla sua villa di Torri, in cima a una collina non distante, per consegnargli un avviso di proroga delle indagini. L’accusa: la bancarotta fraudolenta della Chil Post, l’ex società di famiglia che si occupava di marketing e distribuzione di giornali. Il padre del premier, a ottobre del 2010, ne aveva ceduto una parte alla Eventi 6: azienda che appartiene alle figlie, Matilde e Benedetta, e alla moglie, Laura Bovoli. Mentre il ramo secco, pieno di debiti e guai, passava a Gianfranco Massone, 75 anni: suo figlio, Mariano, è in affari con Tiziano Renzi da anni. Anche la carica di amministratore della Chil Post finiva a una vecchia conoscenza: Antonello Gabelli. Ma a febbraio del 2013, l’ex gioiellino di casa Renzi falliva. Portandosi dietro 1 milione e 200 mila euro di debiti. E tanti interrogativi a cui i magistrati genovesi, Nicola Piacente e Marco Airoldi, stanno tentando di rispondere.
Tiziano Renzi, con la baldanza trasmessa al figlio, ci ha scherzato su: "Finalmente mi hanno beccato!". Ha poi vergato una nota: "Alla veneranda età di 63 anni e dopo 45 anni di attività professionale, ricevo per la prima volta un avviso di garanzia…".

In realtà non si è trattato di un battesimo giudiziario. Tre aziende di famiglia, dal 2000 a oggi, sono state condannate sette volte, tra cause di lavoro e civili. Contributi non pagati, lavoro irregolare, licenziamenti illegittimi, danni materiali. Il curriculum delle imprese dei Renzi non è immacolato come il giglio amato da Matteo. Nomi, persone e situazioni si rincorrono nel tempo. I Massone e Gabelli, Pier Giovanni Spiteri e Alberto Cappelli: i rodati partner d’affari di Tiziano sbucano fuori un processo dopo l’altro. Per intrecciarsi con l’attualità: l’accusa di bancarotta fraudolenta.
I primi guai cominciano alla fine degli anni Novanta, a Firenze. Oltre alla Chil, coinvolgono la Speedy, di cui Tiziano Renzi ha l’80 per cento. Le due ditte fanno strillonaggio per il quotidiano La Nazione. Nella Chil anche il figlio (Matteo), appena neolaureato, ha un ruolo determinante. Per stessa ammissione dell’interessato. Il 15 giugno 2004, eletto alla guida della Provincia di Firenze, l’ufficio stampa distribuisce la biografia del neopresidente: "Matteo Renzi ha fondato la Chil, di cui poi ha ceduto le quote, dove si occupa di coordinamento e valorizzazione della rete, nella gestione di oltre duemila collaboratori occasionali in tutt’Italia". Ed è proprio questo il versante che da subito diventa il più limaccioso.
Le prime condanne a Firenze per i contributi non versati - Il 25 maggio 1998 l’Inps, dopo una serie di accertamenti, multa la Speedy per 955 mila lire e la Chil per quasi 35 milioni di lire: l’accusa è di non aver pagato i contributi agli strilloni. Il 5 febbraio 1999 la Speedy, "rappresentata dal liquidatore Tiziano Renzi", e la Chil, "nella persona dell’amministratore Laura Bovoli", cioè la moglie, ricorrono contro l’ente previdenziale. Il contenzioso finisce al Tribunale di Firenze. Il 16 ottobre 2000 vengono respinte le istanze. Renzi e Bovoli dovranno rimborsare 5 milioni di lire all’Inps per le spese processuali. Nella sentenza, il giudice Giovanni Bronzini, ricostruisce: "Le due società si sono avvalse di collaboratori addetti alla vendita ambulante del quotidiano La Nazione. Questi si presentavano al mattino, circa alle ore 7.00, e ritiravano il quantitativo di copie che ritenevano di riuscire a vendere e quindi andavano a collocarsi in una zona della città a loro assegnata". A quelle riunioni, racconta Giovanni Donzelli, all’epoca studente, oggi consigliere regionale in Toscana con Fratelli d’Italia, si palesava anche il futuro premier: "Arrivava sul furgoncino bianco, da solo o con il padre, per consegnare i giornali e coordinare noi strilloni. Era come adesso: svelto, cordiale e brillante" (...oh no!!! il futuro "dirigente" si occupava di portare col furgoncino bianco i giornali agli strilloni! Compito altamente dirigenziale! NdR)
Il verdetto spiega pure come venivano contrattualizzati i collaboratori: "Sottoscrivevano un modulo-contratto, nel quale la loro prestazione era definita di massima autonomia" dettaglia il giudice Bronzini. "Ma il contributo è sicuramente dovuto. I venditori ambulanti sono da considerarsi collaboratori coordinati e continuativi". I Renzi non la pensavano così: nessun contratto, contributo o tfr. Il parallelo con le polemiche di questi giorni sulla riforma del mercato del lavoro è inevitabile: pure da giovane imprenditore, Matteo Renzi sperimentava massima flessibilità occupazionale. E negli anni a cui si riferiscono le multe dell’Inps, già selezionava e gestiva i collaboratori.
Andrea Santoni, commerciante fiorentino, 36 anni, venne arruolato nell’estate del 1996: "Un’amica mi parlò della possibilità di fare qualche soldo" ricorda con Panorama. "Suggerì di chiamare Matteo. Così feci. Disse di raggiungerlo a Rignano, nella sede della ditta. Lì spiegò come funzionava il lavoro. I pagamenti erano in contanti, in base ai quotidiani venduti. Non mi fece firmare nulla. Né io chiesi niente, del resto". Il 5 febbraio 2002 la Corte d’appello di Firenze conferma la sentenza di primo grado: i contributi dovevano essere versati. Viene smontato anche l’ultimo baluardo difensivo in cui si sosteneva che i venditori non avevano diritto al contratto perché il loro lavoro non era costante. "La continuità dell’impegno dei circa 500 strilloni emerge indiscutibilmente" sottolinea invece il giudice. L’appello della Speedy e della Chil è dunque respinto. La parola definitiva la scrive la Cassazione il 28 settembre 2004: il ricorso dei Renzi è privo di fondamento.
Le grane genovesi - A dispetto però delle tre sentenze sfavorevoli, la gestione dei collaboratori non sembra variare. Agli inizi del 2000, ormai defunta la Speedy, la Chil aveva cominciato a occuparsi della consegna notturna del Secolo XIX a Genova. Ma anche le attività imprenditoriali sotto la Lanterna hanno riverberi processuali. Che sfoceranno il 19 giugno 2013 in una doppia condanna del Tribunale di Genova per due diverse cause intentate da ex portatori di giornali. Nella prima, il giudice Enrico Ravera obbliga la Chil Post, nata nel frattempo dalle ceneri della Chil, a risarcire, in solido con la Eukos distribuzioni, a cui aveva affidato un subappalto, Maurizio L. M., impiegato tra il 2005 e il 2006.
Ed è qui che vecchie carte processuali cominciano a intersecarsi con l’inchiesta genovese. Tra i soci della Eukos, fallita a luglio del 2012, c’è pure Giovanna Gambino, compagna di Mariano Massone, oggi indagato assieme a Tiziano Renzi per bancarotta fraudolenta. La maggioranza delle quote è di Alberto Cappelli, 65 anni, di Acqui Terme. Tra le sue cariche c’è anche quella di amministratore della Mail Service, fallita nell’ottobre del 2011. L’ennesima bancarotta della stessa compagnia di giro su cui stanno indagando i magistrati. Cappelli, infatti, aveva ereditato il timone della Mail Service da Massone, tre anni addietro. Che a sua volta aveva sostituito Tiziano Renzi: amministratore per due anni, dal febbraio del 2004 allo stesso mese del 2006. Una catena che ricorda il fallimento della Chil Post, ceduta da Renzi a suoi sodali in affari prima dello sfacelo.
I magistrati ipotizzano che i Massone, Gabelli e Cappelli siano delle teste di legno. Caronte che avrebbero traghettato queste imprese da un inferno finanziario all’altro. In cambio di cosa? E le controversie giudiziarie hanno contributo alla decisione di sbarazzarsi delle aziende? A Chil Post ed Eukos l’ex collaboratore Maurizio L.M. aveva chiesto un sostanzioso risarcimento per "differenze retributive, ferie, permessi, mancati riposi e preavvisi". Assicurando "di aver reso le suddette prestazioni in regime di subordinazione, pur non regolarizzato". Tecnicismi a parte, un classico caso di lavoro nero. Perché, spiega il giudice, «l’attività svolta dal ricorrente deve considerarsi di lavoro subordinato». Chil Post ed Eukos vengono dunque condannate a pagare 4.339 euro per stipendi arretrati e 439 euro di tfr.
Lo stesso giorno della sentenza, il 19 giugno 2013, il Tribunale di Genova affronta una causa analoga. Che si conclude con una nuova pena inflitta alla Chil Post: il pagamento, sempre in solido con la Eukos, di 4.684 euro a Manuel S., in servizio dal 2001 al 2005. La Chil post, però, viene tirata anche dentro una causa civile, dopo la denuncia della Genova Press, che lamentava danni a un locale concesso in affitto. Una piccola bagattella, insomma. Tanto che in primo grado, il 17 giugno 2011, la richiesta viene respinta. Mentre in Appello, il 16 maggio 2012, è deciso il risarcimento di 1.750 euro, vista "l’asportazione delle pareti divisorie degli uffici".

La causa per licenziamento illegittimo - La Chil e la Speedy non sono tra l’altro le uniche aziende di famiglia a essere rimaste invischiate in contenziosi. C’è un’altra srl, la Arturo, ad avere creato patemi processuali. Fondata all’inizio del 2003 da Tiziano Renzi, che detiene il 90 per cento delle quote. Oggetto sociale: produzione di pane e panetteria fresca. Eppure a Genova, all’inizio del 2007, la Arturo si occupa di retribuire chi distribuisce Il Secolo XIX. Come Omoigui E., un nigeriano, impiegato nelle consegne notturne dall’ottobre 2001 ad aprile 2007. Solo il 7 febbraio 2007 è però assunto come co.co.co. a progetto dalla Arturo, amministrata da Tiziano Renzi fino al 20 marzo dello stesso anno. Giorno in cui, al suo posto, entra in carica Pier Giovanni Spiteri, amico e sodale di una vita. Il 13 aprile 2007 Omoigui E. viene allontanato. A ottobre l’amministratore della Arturo diventa Antonello Gabelli, pure lui indagato per bancarotta fraudolenta della Chil Post. La vita imprenditoriale della Arturo sarà ancora breve. Il 18 aprile 2008 finisce nelle mani del liquidatore: Tiziano Renzi.
L’azienda viene comunque denunciata da Omoigui E. Il 20 settembre 2011 è condannata dal Tribunale di Genova a pagare 85.862 euro per il suo licenziamento illegittimo: "Privo della forma scritta, intimato oralmente, comporta l’assoluta inefficacia dello stesso" scrive il giudice, Margherita Bossi. Al nigeriano sono riconosciuti anche 3.947 euro. Quasi 90 mila euro, in totale, che probabilmente non vedrà mai. Come del resto i suoi ex colleghi usciti vittoriosi dal tribunale. Una sequela di fallimenti ha spazzato via ogni pretesa risarcitoria. Un epilogo che non ha sorpreso né querelanti né tantomeno avvocati. Già il giudice Bossi aveva bacchettato il "comportamento processuale" della Arturo e della Eukos: "I cui legali rappresentanti neppure si sono presentati a rispondere all’interrogatorio formale, senza addurre alcuna giustificazione" sferza il giudice. Aggiunge il magistrato: "Arturo srl, rimanendo contumace, è rimasta inadempiente al proprio onere probatorio". Compito che sarebbe spettato al liquidatore della società: Tiziano Renzi.
Quel prestito da mezzo milione di euro - I nuvoloni di questi giorni sono però ben più densi. Il sospetto dei magistrati è che la Chil Post, l’8 ottobre 2010, sia stata svuotata della polpa con la cessione di un ramo d’azienda alla Eventi 6, gestita dalla madre e dalle sorelle del premier. Valore della compravendita: appena 3.878 euro. Anche se il bilancio del 2009 era stato chiuso con 4,5 milioni di fatturato e quasi 36 mila euro di utili. Il 14 ottobre del 2010, sei giorni dopo la cessione, quel che resta della Chil post viene venduto a un eterodiretto ultrasettantenne, Gianfranco Massone, per 2 mila euro. E l’amministratore diventa Gabelli. La società finisce rapidamente nel camposanto dei fallimenti. È il febbraio del 2013. Un anno più tardi la Procura di Genova indaga Renzi, i Massone e Gabelli per bancarotta fraudolenta.
Tra i debiti mandati al macero spicca quello con la Banca di Credito Cooperativo di Pontassieve: quasi mezzo milione di euro. Presidente dell’istituto è Matteo Spanò, baldo quarantenne, fraterno amico del presidente del Consiglio. Un debito che la Chil Post si portava dietro da anni. La nota integrativa al bilancio 2010 dettaglia: al 31 dicembre del 2009 era di quasi 191 mila euro. Nell’esercizio seguente sale a 259 mila euro. Poco più avanti, il 21 maggio del 2011, Spanò, dal 2008 nel cda della banca, diventa presidente. Qualche mese dopo, il debito finisce a Massone assieme alla Chil. Riappare a maggio del 2013, nell’elenco dei creditori stilato dal curatore fallimentare: 496.717 euro. Tiziano però assicura di essere sereno. La mattina di lunedì 22 settembre, passato qualche giorno dalla proroga delle indagini, il cielo di Pontassieve era terso. Intorno alle nove, davanti alla sede del Credito cooperativo in piazza Cairoli, Tiziano Renzi parlottava e rideva con Spanò e altri due dirigenti della banca. Lo sguardo era il solito: spavaldo e sicuro. Per ricordare a tutti chi è il padre di cotanto figlio.

Antonio Rossitto e Duccio Tronci

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