Maurice Blanchot: sulla traduzione

Da Ellisse

Ospito qui con grande piacere un articolo di Alessandro De Caro (che ringrazio molto) su Maurice Blanchot e sulla traduzione. Come ho già detto altre volte, è sempre interessante e fecondo, anche per il lavoro di scrittura poetica e non, gettare uno sguardo sul pensiero filosofico e ermeneutico (v. ad es. QUI), esattamente come la filosofia ha sempre osservato con grande attenzione la poesia, riconoscendola come "sorella" (basti pensare a Heidegger e Gadamer con Celan o Holderlin, Rilke, Trakl), senza contare le occasioni in cui la filosofia ha trovato nella poesia un magnifico specchio, come in Leopardi. Ma a parte queste considerazioni en passant mi auguro che l'articolo possa aprire una discussione, non solo sulla natura "tecnica" della traduzione ma anche sulla sua implicita natura creativa e speculativa.


Blanchot: sulla traduzione


a cura di Alessandro De Caro


“Siamo consapevoli di quel che dobbiamo ai traduttori e, ancor di più, alla traduzione? Ne siamo poco consapevoli. E anche se nutriamo gratitudine per gli uomini che con coraggio si fanno strada in quell'enigma che è il compito del tradurre; anche se, legati ad essi e docilmente sottomessi al loro zelo, li salutiamo da lontano come i signori nascosti della nostra cultura, tuttavia la nostra riconoscenza rimane inespressa e un po' disdegnosa – per umiltà del resto, da che non siamo in grado di essere loro riconoscenti. Prendendo le mosse da un bel saggio di Walter Benjamin, tradotto (a sua volta) recentemente, nel quale questo eccellente saggista ci parla del compito del traduttore, vorrei tracciare alcune note su questa forma della nostra attività letteraria, forma per altro del tutto originale; se infatti si continua a dire, a torto o a ragione: qui ci sono i poeti, là i romanzieri, quindi i critici, tutti responsabili del senso della letteratura, bisognerebbe annoverare allo stesso titolo anche i traduttori, scrittori della specie più rara e decisamente non comparabili”.

Così inizia l'articolo che Maurice Blanchot pubblicò sulla Nouvelle Revue Française nel 1960. L'occasione era la recente pubblicazione delle Ouvres choises di Walter Benjamin (ed. Julliard), ma Blanchot, com'è suo solito, produce ben altro che una recensione: collocando la figura del traduttore al centro sia del mito letterario che della filosofia, ci lascia delle coordinate per pensare il rapporto tra le lingue e, più in generale, il senso della letteratura per come già emerge in opere quali Lo spazio letterario (1955) o Passi falsi (1943).

“Tradurre, lo ricordo, è parso per molto tempo, in certi campi della cultura come una pretesa subdola. Alcuni non vogliono che si traduca nella loro lingua, altri che si traduca la loro lingua, e occorre una guerra perché questo tradimento, nel senso proprio del termine, si compia: consegnare cioè allo straniero il vero parlare di un popolo (…) Ma il traduttore è necessariamente colpevole di una più grande empietà, perché, nemico di Dio, pretende di ricostruire la Torre di Babele, trarre ironicamente partito e vantaggio dal castigo celeste che separa gli uomini attraverso la confusione dei linguaggi. In passato, si credeva anche di poter risalire in questo modo a un qualche linguaggio originario, a una parola suprema che sarebbe stato sufficiente parlare per dire il vero. Benjamin conserva qualcosa di questo sogno. Le lingue – egli nota- tendono tutte alla stessa realtà, ma non nello stesso modo. Quando io dico Brot e quando dico pane, mi riferisco alla stessa cosa in modi diversi. Prese a una a una, le lingue sono incomplete. Quando traduco, non mi accontento di sostituire un mondo con un altro, una via con un'altra via, ma alludo a un linguaggio superiore che costituirebbe l'armonia o l'unità complementare di tutti quei diversi modi di riferimento e che parlerebbe idealmente nel punto di congiungimento del mistero riconciliato di tutte le lingue parlate da tutte le opere. Da qui un messianesimo proprio a ogni traduttore, se egli si adopera per far crescere le lingue in direzione di questo linguaggio ultimo, attestato già in ogni lingua presente, in ciò che essa nasconde di futuro e di cui il traduttore s'impossessa”.

Blanchot non si limita a sospendere il giudizio intorno al messianesimo, come a volte si è fatto, ma lo interpreta secondo un duplice movimento che ritroveremo nel cuore stesso della traduzione: “Ciò è visibilmente un gioco utopico d'idee” precisa l'autore a questo proposito, “poiché si suppone che ogni linguaggio abbia un solo modo di riferimento e sempre con lo stesso significato, e che questi modi possano divenire complementari. Ma credo che Benjamin suggerisca qualcosa d'altro: ogni traduttore vive della differenza dei linguaggi, ogni traduzione si fonda su questa differenza, pur perseguendo, apparentemente, il disegno perverso di sopprimerla. (L'opera ben tradotta viene lodata in due modi opposti: non la si crederebbe tradotta, si dice; oppure, è veramente la stessa opera, la si ritrova meravigliosamente identica. Ma nel primo caso si cancella, a beneficio della lingua, l'origine dell'opera; nel secondo, a beneficio dell'opera, si cancella l'originalità delle due lingue; in ogni caso qualcosa di essenziale è andato perduto). In verità, la traduzione non è affatto destinata a far sparire la differenza di cui essa è, al contrario, il gioco: costantemente vi fa allusione, la dissimula, ma a volte rivelandola e spesso accentuandola; è la vita stessa di questa differenza, nella quale trova il suo augusto dovere, come pure la sua fascinazione, quando avvicina con orgoglio i due linguaggi attraverso una potenza di unificazione che le è propria, simile a quella di Ercole che tenta di stringere le due rive del mare”.

Scrive ancora Blanchot: “Ma occorre dire di più: l'opera è matura e degna d'essere tradotta solo se nasconde in sé, disponibile in qualche modo, questa differenza, sia perché allude originariamente a un'altra lingua, sia perché riunisce, in modo privilegiato, quelle possibilità di essere differente da se stessa ed estranea a se stessa che ogni lingua vivente possiede”. Qui si vede bene come Blanchot non insista tanto sull'altra lingua, quella in cui si traduce, quanto sull'Altro della lingua.

Il discorso risulta, forse, più chiaro e illuminante se lo accostiamo a quanto scriveva Blanchot ne L'infinito intrattenimento a proposito della “parola plurale”. Una pluralità intrinseca alla parola e portatrice di un'apertura che non si riduce al dialogo, per quanto quest'ultimo sia importante, ma che semmai lo attraversa – questa l'ingiunzione etica che Blanchot mutua da Levinas- se è vero che “parlare significa sì ricondurre l'altro allo stesso nella ricerca di una parola mediatrice, ma significa innanzitutto cercare di accogliere l'altro come altro, l'estraneo come estraneo, e quindi gli altri nella loro irriducibile differenza, nella loro infinita estraneità, estraneità tale che solo una discontinuità essenziale non intacca la sua affermazione propria”. Anche in questo testo Blanchot, non a caso, parla di una “seduzione dell'unità” (linguistica e ontologica) che deve essere superata - ovvero rielabora, tra le altre cose, il sogno di Benjamin. E aggiunge subito dopo: “E non è poco, giacché significa smettere di pensare solo in vista dell'unità, e dunque osare affermare l'interruzione e la rottura per riuscire a proporre e ad esprimere - compito infinito- una parola veramente plurale. Parola appunto sempre destinata in anticipo (e nascosta) nell'esigenza scritta” (da L'infinito intrattenimento, Einaudi1977, p. 108).

Riprendiamo la lettura dell'articolo. Blanchot scrive: “La traduzione è legata a questo divenire, lo traduce e lo compie, essa è possibile solo grazie a questo movimento e a questa vita di cui s'impadronisce, a volte semplicemente per liberarla, a volte per accattivarsela con fatica. Quanto ai capolavori classici che appartengono a una lingua che non si parla, essi esigono tanto più d'essere tradotti, perché sono ormai i soli depositari della vita di una lingua morta e gli unici responsabili del futuro di una lingua senza futuro. Essi non vivono che nella traduzione; inoltre sono, nella lingua originale stessa, come sempre ritradotti e ricondotti verso ciò che hanno di più proprio: verso la loro estraneità originaria”.

A questo punto non stupirà leggere questo ritratto: “Il traduttore è uno scrittore di una singolare originalità, proprio là dove sembra non rivendicarne alcuna. E' il signore segreto della differenza delle lingue, non per abolirla, ma per utilizzarla, per risvegliare, nella propria, attraverso i cambiamenti violenti o sottili che vi apporta, una presenza di ciò che vi è di differente, in origine, nell'originale”. Ciò che è differente è l'origine, quindi. Possiamo evocare nella traduzione soltanto ciò che è diverso da sé, lo possiamo fare partendo da una doppia lontananza: “Non si tratta qui di somiglianza, dice a ragione Benjamin: se si vuole che l'opera tradotta assomigli all'opera da tradurre, non ci sono traduzioni letterali possibili (non più di quanto la realtà romanzesca rifletta la realtà). Si tratta piuttosto di un'identità a partire da un'alterità: la stessa opera in due lingue straniere, sia per la loro estraneità, sia perché si rende con ciò visibile quello che fa sì che quest'opera sia sempre altra; è proprio da tale movimento che occorre trarre la luce che illuminerà, in trasparenza, la traduzione”.

Il ritratto prosegue e si conclude su queste note: “Sì, il traduttore è un uomo strano, nostalgico, che sente come mancanza, nella sua propria lingua, tutto ciò che l'opera originale (che del resto non può raggiungere, poiché non ha dimora in essa, eterno invitato che non l'abita) gli promette sotto forma di affermazioni presenti. Non solo il traduttore si accorge di tutto quello che manca, per esempio, al francese per giungere a un testo straniero dominante, ma egli ormai possiede la propria lingua in un modo privativo e tuttavia ricco di quella privazione che egli deve colmare attraverso le risorse di un'altra lingua, essa stessa resa altra nell'opera unica in cui si raccoglie momentaneamente”.

La traduzione dei passi tratti dall'articolo di M.Blanchot è di Rosella Prezzo. Il testo è apparso nella sua forma integrale su Aut-Aut, n.189-190, 1982.
nella foto: Maurice Blanchot (a sinistra) con Emmanuel Lévinas

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Nella email di accompagnamento dell'articolo Alessandro De Caro aggiunge questo altro interessante commento:

Ciao Giacomo,


ecco in allegato l'articolo di cui ti ho parlato su FB. Ho cercato di ridurre i commenti, come puoi vedere, considerando soltanto le questioni generali...Ci sono ampie citazioni, il testo d'altra parte è uno piccolo spettacolo. Mentre lo rileggevo sono naturalmente emerse altre domande, ma per condensare attorno alla questione che più interessa il tuo lavoro, come credo quello di molti traduttori e poeti, ho preferito sorvolare sulla letteratura comparata, come si dice :-). Tuttavia, ti accenno qui la questione. Meglio se hai già letto l'articolo, pero'.

Quando Blanchot commenta o "finge" di commentare Benjamin sulla questione del messianismo, sta anticipando qualcosa che si ritroverà altrove, vent'anni dopo. Se prendi in lettura La comunità inconfessabile , dunque un testo "politico" legato anche ma non solo alle riflessioni sul Sessantotto, trovi un passo dove B. paragona il "popolo degli uomini" al "mondo degli amanti" la cui impotenza, anzi la cui forza senza potere, sembra legata all'impossibilità di avere un mondo e un'esperienza "reali". Il fantasma del popolo, il fantasma dell'amore. B. scrive di "oblio del mondo" nella società, in sostanza. Lo stato delle cose somiglia, in modo inquietante, all'impossibilità di restituire nella propria lingua quell'alterità che è anche la nostra, come dice nell'articolo che ti mando.

Del popolo, B. scrive: "Inerte, immobile, non tanto riunione quanto dispersione sempre imminente di una presenza che occupa momentaneamente tutto lo spazio e tuttavia è senza luogo (utopia), una sorta di messianismo che nulla annuncia se non la propria autonomia e la propria inoperosità (a condizione di lasciarla a se stessa, altrimenti subito si modifica e diviene un sistema di forza, pronto a scatenarsi): tale è il popolo degli uomini".

Forse mi sbaglio, ma c'è un nesso tra la "democrazia a venire" (Derrida che rilegge Blanchot) e la traduzione come avvento della lingua dell'Altro, se consideriamo che questo evento è improbabile (Bonnefoy, se vuoi) o interminabile (Freud).

La condizione del traduttore, allora, mi appare meno circoscritta di quanto non sembri a prima vista nell'articolo del '60, come colui che non può amare "con nessuna vivente passione", così scrive B. sempre in La comunità..., ma tende all'infinito verso l'Altro, lo cerca e vi abita persino - lo rende luogo, si potrebbe dire-, ma senza poter accogliere nient'altro che il desiderio di quest'incontro. Spettro della democrazia, in qualche modo? Risvolto politico del tradurre, magari è già stato discusso altrove ma io non ne so molto. Sono questioni complesse da articolare, magari anche confuse, te ne parlo come note a margine.  (...)

Alessandro


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