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Qualche tempo fa parlai di un regista particolare, che definii trasversale nel panorama horror americano. Si tratta di Lucky McKee, quello di The Woman, di Masters of Horror (impressionante il suo Sick Girl) ma, soprattutto, dei film ispirati alle opere di Jack Ketchum (di cui ha portato sul grande schermo ben due romanzi).Nel 2002 questo ragazzo del '75 uscì con il suo primo lungometraggio, May, e già chiarì quella che sarebbe stata la sua poetica: raccontare un orrore radicato e sotteraneo, che deflagra all'improvviso attraverso personaggi soli, emarginati o semplicemente diversi, a volte veri e propri freak.
La storia di May racchiude tutte le caratteristiche di cui sopra: è la storia di una ragazza che in seguito ad un infanzia difficile causata dallo strabismo e da una madre oppressiva, si ritrova senza amici e senza amore alla ricerca di qualcuno che la accetti per quello che è. Una ricerca che finirà in un mare di sangue.
McKee si approccia all'horror con le idee ben chiare, quelle di un cinema che se ne frega delle mode, che dilata i tempi come gli pare, concentrando molti anni in pochi minuti e reiterando i secondi per costruire personaggi e situazioni traversali. Per questo riesce a creare il background di un personaggio con poche e riuscitissime scene, senza spiegoni, per poi catapultare lo spettatore nell'incubo di una ragazza, May, talmente speciale da essere una diversa. E la diversità rende soli e la solitudine può far male, soprattutto a chi l'ha vissuta talmente nel profondo da non essere più capace di gestire le dinamiche sociali.
La protagonista del film è una sociopatica: la sua migliore amica è una bambola che ha sempre tenuto nella propria teca di vetro e lei è così bella da togliere il fiato, una bambina nel corpo di un'adulta che, ad un certo punto, decide di uscire dalla campana sotto cui sua madre l'aveva rinchiusa tanto tempo prima (proprio come, appunto, una bambola) e di sporcarsi con il mondo solo per infrangere la solitudine che come lo strabismo l'ha condannata sin da piccola ad essere una outsider. La spinta a far questo è l'improbabile innamoramento per un ragazzo incontrato casualmente per strada. May però non è provvista di quegli strumenti che le permetterebbero di interagire con il prossimo, non ha maschere, è limpida e pura, senza difese. Per questo quando si scontra col mondo e le sue beffe, con la cattiveria della gente e la paura che questa prova nei confronti del diverso, la sua personalità comincia ad incrinarsi, ad andare in pezzi come fosse fatta di vetro. Nel rappresentare questo, McKee si avvale di un'estetica che molto deve a Polanski e al suo Repulsion, ma prende una via diversa, cruda e minimale almeno fino al finale weird che a me ha ricordato (con le dovute differenze) quello del Maniac di Lustig.
In realtà May (un'Angela Betty così brava da non essere vera) vuole solo essere vista per quello che è. Vuole che la gente vada oltre il suo strabismo e i suoi modi strani. Vuole essere amata. Ad un certo punto è come se gridasse "io sono qui" ma nessuno sembra ascoltarla, nessuno sembra voler andare oltre i suoi occhioni, la sua pelle color latte e il suo corpo magro. Così lei rimane sola e non può più sopportarlo. Ogni personaggio a cui si avvicina è apparentemente un suo simile ma si rivelerà profondamente diverso da lei: la loro è una diversità di facciata, un altro squallido trucco per affermare la propria individualità. Lei invece non indossa maschere e per questo non può nascondersi. E quando viene colpita si fa più male di chiunque altro. Così, scontrandosi con lo sguardo crudele del mondo, il suo io va in frantumi: la bambola viene calpestata, umiliata, smembrata. La disperazione che ne consegue diviene prima follia e poi risoluzione: se non può farsi amare dalla gente, allora costruirà lei chi sarà in grado di farlo. Un essere androgino che possa finalmente "vederla" per quello che è, senza filtri. Costruirlo sarà un po' come ricostruire se stessa ed è questo che avverrà in un finale dalla dolcezza disperata che non starò qui a raccontare per ovvie ragioni.
McKee dirige un horror lento e riflessivo ma secco, mai enfatico. Dipinge un dramma psicologico che solo nell'ultima mezz'ora sfocierà nel sangue. Prende un personaggio disperato come nessun'altro e ce lo mostra senza filtri. Si prende tutto il tempo di cui ha bisogno, fa cinema nel cinema (con l'aiuto dell'amico Chris Sivertson) e cita Dario Argento. Perchè lui può, lui sa come farlo e lo sa fare bene. La storia di solitudine che racconta tocca lo spettatore con durezza, riesce a farlo sentire sbagliato perchè anche lui, forse, si sarebbe comportato come i personaggi del film. E alla fine la vendetta di May si abbatterà anche un poco su di lui.
"Nessuno vuole stare da solo", dice la protagonista. Non è sempre vero, ma molto spesso sì.
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