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Me ne resto nel Juke-Box

Da Danielevecchiotti @danivecchiotti

Me ne resto nel Juke-BoxIl luogo comune del romanziere vuole che la soddisfazione più grande per chi scrive sia quella di arrivare in fondo al lavoro, mettere la parola FINE alla storia, magari poi passare tutto all’editore, vedersi arrivare il contratto per la pubblicazione e, apriti cielo, entrare tronfio in una libreria a godersi la pila di copie nella vetrina.

Ora… sarà che i miei romanzi editi hanno sempre fatto una certa fatica a trovare un posto al neon sugli scaffali dei supermercati; sarà che in tempi di self-publishing dilagante ormai un libro edito ce l’ha un numero di persone addirittura superiore a quello di chi, dieci anni fa, aveva un romanzo nel cassetto; sarà che, sebbene io capisca ancora benissimo le ragioni dello scrivere, faccio sempre più fatica a comprendere quello del pubblicare; sarà che mi sembra un momento storico in cui più si comunica con gli altri e meno si entra in relazione, ma io mi convinco sempre più che finire un romanzo rappresenti, per il suo autore, una tragedia da posticipare ad libitum.

Da quasi tre anni rimugino e prendo appunti per una storia il cui titolo ipotetico potrebbe essere “La ragazza del Festivalbar”, in coerenza con la mia storia di uomo pop e in spudorato omaggio alla storia del Juke Box. Continuo a smontare e rimontar la trama, a cambiare i personaggi, a ripensare da capo ambientazione e cifre stilistiche.
Per lungo tempo ho creduto si trattasse di blocco creativo, di crisi motivazionale, forse di incapacità a scrivere. Adesso, invece, scopro che l’idea di questo romanzo mi piace troppo perché io possa davvero svilupparla e trovarmi, poi, costretto a liberarmene.

Le ricerche in fatto di avvenimenti sociopolitici e soprattutto di storia della hit parade a cui sono costretto per costruire l’intreccio mi gratificano al punto di non voler mai considerare il mio lavoro compiuto e passare oltre. Insomma… non mi va di interrompere questo meraviglioso gioco a base di ritagli di giornale, libri ingialliti e vinili che friggono.
E visto che, ringraziando il destino, non ho né un editore che mi stressa sollecitandomi la consegna del testo né, tantomeno, ci sono lettori che attendono con ansia la mia prossima opera scatenando in me il senso della responsabilità, posso tranquillamente godermi questa lunga, infinita estate creativa abbronzandomi al sole di un romanzo da riscrivere ogni volta da capo. Non appena arrivo a metà, già mi sembra di diventare anch’io vintage come le atmosfere che descrivo, e, troppo impaurito all’idea di relegar me stesso in un album dei ricordi, finisco col buttare via tutto e ricominciare da zero.

Anche perché questo teorico romanzo – che comincia nel 1963 e finisce all’incirca nel 1992 – mi dà l’opportunità di esiliarmi da un presente che mi piace assai poco. Ho una scusa per ascoltare musica davvero buona, per leggere la cronaca politica sapendo anche come è andata a finire, e, nel maniacale bisogno di totale immedesimazione con i miei alter-ego narrativi, per indossare abiti di alta sartoria pagati pochi spicci in quanto completamente fuori moda.

Per quale motivo, dunque, dovrei affrettare la scrittura, scoppiando con le mie mani questa bolla che mi diverte e mi fa sentire protetto?
Insomma… non c’è nessuna ragione per corrermi dietro da me. Posso prendermela con calma e, fino a quando i miei fruscianti dischi a 45 non mi saranno venuti a noia, rimanermene chiuso nel Juke-Box a far finta che sia – ancora e per sempre – l’estate del 1972.


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