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Medea e Antigone: Antieroine Contemporanee

Creato il 21 febbraio 2012 da Dietrolequinte @DlqMagazine
Postato il febbraio 21, 2012 | TEATRO | Autore: Elisa Stellacci

Medea e Antigone: Antieroine ContemporaneeSolo due interpreti, Teresa Ludovico e Vito Carbonara, per raccontare sul piccolo palcoscenico del Kismet OperA di Bari, due tragedie con intermezzo nonsense. In “Cara Medea e Piccola Antigone”, Teresa, attrice protagonista e regista della pièce, si rivolge al pubblico per spiegare, con lunghi monologhi, la follia di vite nate sotto cattivo auspicio e interrotte da eventi dolorosi. Vito, nei due ruoli maschili, con poche parole, lunghi silenzi e gesti plateali, che pesano come macigni, determina la sorte delle due figure mitologiche qui inserite in un contesto moderno. Così, il drammaturgo pluripremiato, Antonio Tarantino, reinterpreta l’Antigone dell’antica Tebe, come protagonista di una metropoli senza tempo e la Medea di Corinto come ex deportata nella Cecenia distrutta dalla seconda guerra mondiale. A tutti è concesso dare la propria versione dei fatti: il teatro non lo nega, la vita a volte sì, la gente quasi sempre. Per cui si dà voce e primo piano alle due donne forti, decise e consapevoli della gravità lacerante del proprio destino, che hanno commesso l’indicibile e l’incomprensibile: incesto e matricidio. I protagonisti, a cui è stata data la possibilità di scegliere, subiscono il destino con dignità e sopportazione; le donne vocianti, incalzanti, nude e vere; gli uomini silenti, succubi, inermi e dal miserevole aspetto come a conferma degli stereotipi maschili e femminili. Primo atto della piccola Antigone: igiene, ordine e codice deontologico di una prostituta che incontra, ignara, suo padre come cliente, e il suo assassino, come beffarda conclusione della sua esistenza. Indossa una lunga parrucca bionda, un vestito candido e tacchi altissimi. La scena si apre con la donna che canticchia e spolvera accuratamente il vetro invisibile e due sedie, rappresentazione di una stanzetta di un modesto condominio in una qualsivoglia città contemporanea. Parole banali, logore, ripetute, gesti consueti, rabbia e rassegnazione per la concorrenza di ragazze dell’est; cuffietta, guanti e ciabattine per le pulizie di casa come una comune casalinga, tacchi a spillo e asettiche regole per i clienti/datori di lavoro. Regole infrante da un unico cliente, che si scoprirà essere suo padre Edipo e che le tocca i capelli e la bacia. L’interrogativo comune dei due (“Com’è potuto accadere?”), nella scoperta dell’altrui identità, è la sintesi di una tragedia ormai consumata.

Medea e Antigone: Antieroine Contemporanee

La donna ha parlato con tono superiore e deciso, seduta sulla sedia, svelando le abitudini dei clienti, di sesso, delle loro mogli, di igiene e protezione (parte fondamentale del servizio offerto), delle lamentele con l’amministratore per un cambio di lampadina, del lavoro che è comunque lavoro. Lei non si fa imbrogliare, è professionale, seria e preparata agli imprevisti del lavoro (dalle pretese dei clienti al possibile killer con accetta): le sue memorie riecheggiano nella stanza vuota, accuratamente illuminata da Vincent Longuemare. Di quella stanza non rimane ormai nulla. Entra in scena Vito Carbonara con occhiali da cieco, intervallo pubblicitario tra i due atti. Canticchiando e biascicando piccole scene di inutile e ordinaria cattiveria. Non convince del tutto, ma piace abbastanza al pubblico. Intanto, ripensiamo alla tragedia consumata poc’anzi e facciamo un breve riassunto della storia di Antigone ed Edipo, il re di Tebe, che, dopo aver ucciso inconsapevolmente suo padre e commesso incesto con la madre, ebbe quattro figli, tra i quali Antigone. Scoperto il misfatto si acceca, mentre la moglie si uccide. I figli non commiserano il padre, ma lo cacciano e si ammazzano, l’un l’altro, in duello. La piccola Antigone segue, fedele, suo padre Edipo in pellegrinaggio ad Atene e, solo dopo la sua morte, ritorna a Tebe. Inizia, qui, la tragedia di Sofocle. La volontà di dare degna e comune sepoltura ai suoi fratelli fratricidi, si scontra con quella del nuovo re di Tebe, Creonte. Non si arrende, perché, a parer suo, lo Stato non può contrastare i diritti inviolabili dell’uomo e non può permettere che il corpo di un fratello sia lasciato in pasto a cani e uccelli. Scoperta e arrestata, viene imprigionata per essere sepolta viva. Le suppliche del coro e le profezie di un indovino, convincono il re alla sua liberazione, che arriva tardiva perché la donna si è già impiccata. Segue il suicidio del figlio di Creonte, promesso sposo di Antigone e della moglie dello stesso. Il re rimane solo a maledire la propria stupidità. La disputa delle leggi divine e umane, la legittimità delle scelte di Antigone rispetto alla tirannia del re e la sua fedeltà al padre, hanno comportato la morte tragica di tutti i cari di Creonte, vendetta perché ha osato anteporre le proprie leggi a quelle umane e divine. In altre parole: s’è l’era cercata. La meretrice ha una vita ben precisa e ordinata: due sedie e una parete invisibile che deterge continuamente, attenta e con piglio severo, lava i propri clienti prima di ogni rapporto sessuale. Nella riscrittura contemporanea, la figura maschile compie sempre scelte sbagliate e senza pentimento. La morte della prostituta diventa soluzione dell’atto, proprio come sentenzia il coro della tragedia greca nell’interpretazione di Antigone da parte dell’Alfieri. Senza la piccola Antigone, tutti sarebbero stati più tranquilli; nel mondo contemporaneo, a parte il suo continuo vociare e qualche cliente insicuro, nessuno ne avvertirà la mancanza. Ormai regna la calma: nella scrittura di Tarantino la bionda accompagnatrice viene uccisa violentemente, mentre nella tragedia di Sofocle tutti muoiono equamente.

Medea e Antigone: Antieroine Contemporanee

Secondo atto con la cara Medea: rabbia, fatica fisica e ineluttabilità di una povera donna, rinchiusa nel lager per aver ucciso i propri figli, nell’incontro con l’ormai vecchio e insulso compagno di vita. Stanca, a tratti inferocita, racconta una storia fatta di violenze, ricatti, dipendenza economica e culturale da un marito che lavora in un silurificio a Pola. Ignaro e vigliacco si fa scivolare la vita addosso. La donna, la stessa Tarantino, ora dimessa e con panni umili, srotola davanti ai nostri occhi la vicenda personale in un viaggio logorante su camion lungo l’Europa post bellica, scandita da località e aneddoti di un cammino intervallato da tappe e prestazioni sessuali (con annesso manuale kamasutra per giovani inesperte). Ha come unico fine il ritorno dal marito Giasone, ormai vecchio e silente, ma che sia per amore, odio, rassegnazione, indignazione, non è dato sapere. Ostenta a volte la sua tenacia, la superiorità rispetto all’uomo inetto, la scelta forzata del matricidio, la sua avvenenza e la verbosità fatta di diversi accenti, miscuglio d’idiomi slavo-balcanici, di pensieri, recriminazioni e sentenze. La scena si conclude con la strana coppia, che indossando occhiali con dipinti sulle lenti occhi spalancati, si appoggiano l’un l’altro gettando fiori rossi e bevendo cattivo vino. Conclusione lungamente applaudita degli atti unici di Tarantino. Riassunto della Medea di Euripide: la donna s’innamora perdutamente di Giasone, tanto da uccidere il proprio fratello; quando però lui la abbandona per Glauce, cova una tremenda vendetta, uccidendo la nuova compagna e i suoi figli perché Giasone non abbia più discendenti. Euripide parla di scelte sofferte, violenze verbali, vendetta e odio. La conclusione folle è la morte della prole per mano della stessa madre come vendetta lucida e calcolata verso il proprio amato; rimangono il dolore indicibile di Giasone e le maledizioni contro gli dei inermi. Giasone diventa, nella scrittura di Tarantino, uno stratega fallito che lavora in un silurificio di Pola; la donna dopo aver ammazzato con un’accetta i figli, è rinchiusa nel campo di sterminio a Sobibór. È lei ancora la protagonista di questa storia; ormai conscia del proprio destino, alternando cambi d’umore, sciorinando dettagliate località e con diversi linguaggi, non può che parlare addosso ad un fantoccio che si siede in mezzo al pubblico, recriminando più a se stessa che ad un reale interlocutore la propria solitudine e miseria umana. Le due antieroine e le vite interrotte che ruotano loro attorno, sono narrate con dolore e sarcasmo; alle disgraziate il pubblico può riserbare pietas e commiserazione, chiedendosi forse, come si sia potuta consumare tale follia umana senza che le stesse abbiano immaginato altra soluzione possibile. Chiedendosi inoltre come mai abbiano legato la loro sorte a uomini tanto insulsi e inconsistenti.

Gli scatti inseriti nell’articolo sono stati gentilmente concessi dal Teatro Kismet OperA di Bari



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