Andrea Pallaoro
USA, Messico, Italia, 2013
100 minuti
Ennis è un allevatore, padre dai modi rudi e fervente cattolico. Instancabile lavoratore vive con la moglie Christine e i cinque figli nelle sconfinate campagne rurali della California. Il lungo periodo di siccità comporta un calo della produzione; l'uomo è sempre più nervoso ed esigente, sia con i figli (specialmente i più grandi, alle prese con i primi turbamenti dell'adolescenza) che con la moglie, dalla quale pretende attenzioni alle quali ella sembra rifuggire. L'unità del nucleo famigliare inizia a dare segni di cedimento e, nel frattempo, Christine allaccia una relazione extraconiugale...
Con molta probabilità, attraverso quella foto scattata a inizio film che immortala la famiglia di Ennis seduta in riva ad un laghetto (oasi di refrigerio dalle limpide reminescenze reygadasiane - quelle di Stellet Licht, per intenderci, simile anche per tema trattato - nell'arido ed assolato panorama del Sud californiano) possiamo scorgere l'ultimo istante di autentica e spensierata (ri)unione famigliare, prima di una lenta dissoluzione che condurrà a quella premeditata tragedia dai parziali risvolti euripidei e dai quali, il regista di origini trentine (ma trapiantato da anni negli States) Andrea Pallaoro, trae ispirazione per questo suo esordio al lungometraggio. Quell'istantanea introduttiva, che sembra quasi fungere da presagio funesto al dramma che sopravverrà, occultato dietro la sua cornice d'illusoria armonia, produce quindi fin da subito un'incrinatura del microcosmo famigliare, nonchè del linguaggio convenzionale, sottraendo voce al narrato (Christine è sordomuta, e di conseguenza l'interlocuzione con marito e figli avviene attraverso il gergo dei segni) e preferendo al contrario esaltare l'espressione dei corpi e del paesaggio alienante che gli imprigiona (astraendoli da un mondo che appare a sua volta sconfinato in un tempo già decorso - radio e tv paiono quasi una novità - del quale sembra non esservi esistenza altra), annientandone la comunicabilità. Perchè Medeas, come per dichiarata ammirazione del regista verso il cinema di Antonioni(1), procede nel suo taglio fratturale (s)componendosi gradualmente e minuziosamente di segni, gesti, dettaglli e riflessi (gli specchi sono una costante) che divengono elementi essenziali e sostitutivi della parola(2). Il minimalismo dell'inquadratura stessa, compressa nel suo aspetto panoramico, con il procedere del tempo tende a sezionare il soggetto trasformandolo in oggetto; annienta parzialmente la raffigurazione dei volti, quindi dell'individualità, oltre che della comunicazione verbale, tagliati più volte ai margini dello schermo o catturati nell'offuscamento del fuori-fuoco, magari esaltato dal riverberìo di quel sole che per tutto il film non fa che inaridire, oltre che alla terra, affetti e speranze, discrepando giorno dopo giorno il cuore di Ennis, incapace di liberarsi dall'oppressivo tormento che si agita nel proprio corpo. A tal riguardo, Pallaoro si limita a disseminare la sua pellicola di possibili intuizioni, probabili segreti a lungo custoditi e timorosamente inespressi; scoperte traumatiche suscitanti pregiudizi errati ("la mamma ha l'AIDS") che, ancora una volta, l'assenza di contatti ed informazioni provenienti dall'esterno hanno generato. E avvolto nel suo silenzio introspettivo, Medeas finisce per debordare di segnali, procedendo per formulazioni fino ad investire con quel gesto estremo messo in atto nell'epilogo, che giunge inatteso e diretto come un pugno nello stomaco. Solo allora, al volgere del giorno successivo all'apoteosi dissolutiva rappresentata dalla definitiva immobilità di quei corpi innocenti riversi nell'auto, la pioggia a lungo attesa (cercata/pregata) scenderà ad irrorare, ma come lacrime di dolore, la coscienza di chi è rimasto.
(1) "Michelangelo Antonioni, per me rappresenta l’apice del cinema, le sue tematiche le sento molto profonde in me, il modo in cui tratta l’alienazione mi ha ispirato incredibilmente per la realizzazione di questo mio progetto cinematografico."
(2) "Grazie all’uso di specchi e di superfici che riflettono immagini, riesco ad ottenere quell’effetto di scomposizione e ricomposizione della figura umana e del paesaggio che mi consente di raccontare, da un punto di vista diverso, ogni soggetto. Sono molto interessato all’introspezione e in Medeas ho cercato di articolare, con le immagini, un dialogo ipotetico tra un “dentro” psicologico ed un “fuori” corporeo. È un fare cinematografico minimalista che individua nel silenzio, imposto e subito, la propria linea di condotta.”
- Andrea Pallaoro
Magazine Cinema
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