“I media dovrebbero investire nel business delle relazioni e non solo in quello dei contenuti”, scriveva Jeff Jarvis nel suo blog poco tempo fa, precisando così la sua affermazione: “in altre parole, il valore dei media non è necessariamente intrinseco nei contenuti – nel senso che ‘devi pagare per questo prodotto perché il lavoro nel crearlo ha un valore’ – ma può essere realizzato nelle relazioni che si formano intorno a quel contenuto”.
Il punto è che l’industria dei media (e in particolare dell’informazione online) ha in questi anni cercato di risollevarsi dalla propria crisi principalmente cercando la risposta ad una domanda : come obbligare le persone a pagare per i contenuti che possono trovare gratuitamente in rete? Ma se una risposta soddisfacente fatica – ormai da anni – ad essere trovata, forse è bene cominciare a dubitare che sia la domanda stessa a essere sbagliata.
In questa direzione Jarvis dice che il mondo dei media e quello della pubblicità diventeranno sempre più “volontari”, molto più di quanto non lo siano già adesso. Cosa vuol dire? Per spiegarsi cita due recenti interventi di due donne molto diverse tra loro: la cantante e performer Amanda Palmer e Susan Wojcicki, vicepresidente di Google.
La Palmer in un suo apprezzatissimo intervento al TEDTalks, racconta come la sua esperienza di artista di strada sia stata decisiva per mettere a punto uno dei progetti di crowdfunding più riusciti della storia della celebre piattaforma Kickstarter. L’arte di chiedere (così si intitola il suo intervento, di cui ho parlato anche qui) l’ha scoperta quando in piedi su una cassa all’incrocio della strada si esibiva come mimo aspettando che i passanti le donassero qualche spicciolo. Ma era proprio in quell’istante che si creava un rapporto (un legame?) tra lei e la persona che le stava di fronte. Perché l’atto di chiedere – ci dice la Palmer – crea comunque una relazione, una connessione “peer to peer”, tra le persone. E se sei capace di trasformare quelle singole connessioni in qualcosa di vero e autentico, è molto probabile che quelle stesse persone abbiano poi il desiderio di realizzare qualcosa con (per) te.
Le persone sono ossessionate dalle domande sbagliate, una di queste è: come possiamo convincere le persone a pagare la musica? Che ne dite se invece cominciassimo a chiederci: Cosa dobbiamo fare per lasciare che la gente paghi la musica”.
Insomma, ci dice la Palmer, non chiederti come fare per obbligare la gente a pagare per quello che fai ma mettiti in gioco, scendi dal tuo piedistallo e comincia a costruire dei rapporti grazie ai quali la gente senta la necessità di farlo: perché si sente parte di un progetto, perché si riconosce in quello che fai, perché lo avverte come un elemento importante del proprio essere persona tra le persone. Già ma per farlo devi spendere tempo e risorse (non solo economiche ovviamente ma di “voglia di esserci”).
I media e la pubblicità, ricorda Jarvis nel suo articolo, hanno ancora molta difficoltà nel realizzare rapporti di questo tipo perché non sono progettati per parlare con le persone, in quanto persone. Sono progettati per misurarsi con le masse (ovvero con le persone in quanto numero). Internet, le reti sociali, stanno mettendo in discussione molti dei paradigmi della vecchia industria della comunicazione. Questioni di scala da ripensare e ricalibrare: ad esempio il primo disco della rock band della Palmer aveva venduto 25mila, un’inezia, un vero fallimento per gli standard di una major discografica. Ma 25 mila persone sono state più che sufficienti – guarda un po’ – nel mondo di internet, per finanziare quella stessa band e raccogliere in qualche settimana oltre un milione di dollari.
L’altra donna citata da Jarvis è la Wojcicki (responsabile del 96 percento delle entrate di Mountain View dicono qelli di Forbes) invece ha scritto un breve post molto interessante dove elenca i cinque punti che, a suo parere, caratterizzeranno il futuro dell’advertising online (e visto il “peso” del personaggio io un’occhiata, se non lo avete già fatto, ce la darei). Guardate cosa mette al primo posto:
Scelta: Ci stiamo rapidamente muovendo sempre più verso un’economia basata sulle scelte, nella quale gli utenti scelgono con un click, sia per quanto riguarda la pubblicità che i contenuti, ciò che vogliono vedere. Negli anni a venire, la maggior parte delle visualizzazioni degli annunci pubblicitari saranno sempre più efficacemente diventate volontarie.
Oggi nell’epoca dell’abbondanza, in un ecosistema digitale sovraffollato di “cose” (testi, video, file, musica, immagini) e fonti (i media tradizionali e mille altre piattaforme) obbligare le persone a vedere/cliccare/comprare qualcosa sarà sempre più difficile, dice ancora Jarvis, se non hanno davvero intenzione di farlo. Soprattutto se il valore dei contenuti provenienti dai media non sarà realmente percepito dal lettore, ma imposto – giusto o sbagliato che sia – da paywall e da copyright.
Bene, ma se per i media sarà sempre più importante investire con decisione sul “relashionship business”, sull’interazione che nasce tra contenuti e tra le persone, allora si ripropone una questione: quale tipo di relazione, quella che anche nei nuovi “ambienti” si basa solo sulla quantità, sui numeri o quella sulla qualità e l’”intensità” dei rapporti costruiti nel tempo?
Almeno in teoria una delle necessità introdotte dai nuovi media dovrebbe essere quella di superare molte delle vecchie metriche che oggi gli editori e i responsabili marketing utilizzano per valutare il valore dei contenuti. Ma non è così. Nel mondo dell’informazione i media online ci propongono come “nuovi modelli vincenti” quelli nei quali i contenuti sono remunerati pochi spiccioli e valgono, prima di qualsiasi altro parametro, per il numero di click che generano. La valutazione ancora oggi si fonda essenzialmente sulla quantità prima che sulla qualità: la quantità di click sui display advertising, le pageview ottenute con titoli a effetto, fotogallery pruriginose e altri mezzucci vari. Così la quantità vince ancora nelle logiche di investimento, sulla qualità di costruire un rapporto duraturo e basato sulla qualità e la fiducia con l’utente. Alla faccia del nuovo che avanza.
Della necessità di superare questi modelli se ne parla da un po’, ma ultimamente sul tema dei nuovi parametri è nato in rete un bel dibattito (innescato da un interessante articolo dal titolo esplicativo Page Views Are Dead, Long Live Engagement) che ha valore seguire. Tra gli altri ne hanno scritto Mathew Ingram, su paidContent riprendendo dati diffusi da Chris Dannen su FasCompany che consiglio di leggere. Qui da noi è sicuramente da seguire Pier Luca Santoro, (qui, qui e qui) che supporta anche con dati e cifre la necessità di ripensare e superare alcuni parametri di valutazione, e Davide Pozzi che fa alcune precisazioni tecniche molto preziose.
Quindi alla fine, se veramente investire nella qualità e nell’iterazione diventerà sempre più una strada obbligata, per parlare alle persone in quanto persone e non come masse, ci sarà però bisogno di un elemento essenziale: il tempo. Il tempo per creare contenuti di valore, il tempo da spendere nel leggerli, il tempo di “spendersi” per interagire seriamente e con continuità. Una maggiore attenzione al “fattore tempo” sia nel creare che nel valutare i contenuti da parte dei media rappresenterebbe davvero una svolta. Decisamente troppo bello per essere vero.