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Io gli ribatto che è vero, ma che se mi inalbero è sempre a ragion veduta.
Al che lui mi dà ragione, ma ribatte che, quantomeno, i motivi per inalberarmi dovrei cercare di evitarli, anziché andarne a caccia con il lanternino.
Ad esempio, vedendo brutti film. Sapendo già prima di vederli che sono brutti film, e che quindi potrebbero essere causa di incazzatura.
Incazzatura che diviene ancora più belluina se detti film vengono prodotti con i soldi delle mie tasse, e anche di quelle dell'amato bene, nonché delle vostre. Ma questo fra parentesi.
Voi mi chiederete forse: ma se già sai in anticipo che ti prenderai un'arrabbiatura solenne, perché ti fai del male?
Perché voglio avere la sicurezza di arrabbiarmi a ragion veduta.
Prendiamo ad esempio Barbarossa di Martinelli. Su questo film, nonché sul suo regista, ne son state dette di cotte e di crude, in primis che sia un mero prodotto di propaganda politica per la Lega e che Martinelli sia una mezzacalzetta cui riesce di far film solo perché promosso e sostenuto dalla destra. Trattandosi di un'epopea sull'eroe preleghista numero uno qualche sospetto potrebbe venire, e il fatto che vi sia un cammeo di quel certo senatore che ha una spiccata tendenza a inveire contro Roma ladrona tende a confermarlo. D'altro canto, si potrebbe pensare che lo spregio che trasuda dalla maggior parte delle recensioni sia frutto di una visione di parte, cosa che il regista non ha mancato di sottolineare in ogni intervista.
Io personalmente non l'ho visto quando è uscito al cinema poiché in tutt'altre faccende affaccendata, e non da ultimo perché i trailer disponibili online mi avevano fatto ammutolire per la bruttezza. Però sarebbe ingeneroso condannare un film in base al trailer, e assai pigro stroncarlo solo perché amici e recensori fidati ne han fatto macinato per il gatto.
Sicché, quando un amico ha ben pensato di omaggiarmi di una copia pirata del film - e prima che i leghisti ululino sui terroni e i loro prodotti tarocchi tengo a precisare che detto amico è di Martellago, provincia di Venèssia - in quanto, testuali parole, "proprio non sono riuscito a finire di vederlo", mi sono messa diligentemente davanti allo schermo del pc che impiego a mo' di televisore per farmene opinione diretta e ragionata.
Dopo due ore e passa che mi hanno fatto alternativamente sanguinare gli occhi, prorompere in insulti cavapelle e ridere fino alla convulsione, posso dire con cognizione di causa che Barbarossa è una cazzata apocalittica.
Sul fatto che Alberto da Giussano sia un personaggio storico più o meno quanto Babbo Natale, chissenefrega. Di film su personaggi mitici ne sono stati fatti a bizzeffe, per cui è lecito, e volendo è lecito pure dargli una patente di storicità. Per farlo, però, tendono ad essere necessarie cosucce tipo un cast come dio comanda, una sceneggiatura fatta come si deve e un'ambientazione credibile.
Queste tre cose sono completamente assenti. E il caro Alberto, come dire, ne risente un po'.
Ne risente anche il fatto che a intepretarlo sia Raz Degan. Il quale ha due espressioni: con i capelli corti, e con i capelli lunghi e bisunti da wrestler allergico all'acqua. L'avevo visto in Centochiodi di Olmi, che ne aveva sfruttato al meglio l'intensa espressione bovina rendendolo un personaggio insondabile e per questo affascinante, ma Martinelli non è Olmi. Vi lascio immaginare pertanto quale carisma mostri il capo lombardo appetto al Barbarossa, interpretato da Rutger Hauer. Chi lo ricorda in Blade Runner sia buono con se stesso ed eviti questo film: ne avrebbe un trauma da segnarlo a vita. Non che Hauer sia cane beninteso: è semplicemente spaesato. Nasconde la sua perplessità con una serie di espressioni facciali assolutamente inutili, e ha lo sguardo di chi pensa "vabè, tanto codesta boiata all'estero non la vedrà nessuno, e intanto mi sono rimpinguato il portafogli".
Non è il solo attore con il curriculum che si vede nel film: l'altro è F. Murray Abraham, e chi lo ricordasse nell'Amadeus di Milos Forman sia ancora una volta buono con se stesso. Non è spaesato: semplicemente non sembra lui. Recita come una muta di cani. Pertanto è in eccellente compagnia con il resto del cast, che annovera in parti eque bietoloni inespressivi e bellone che lo sono altrettanto e si distinguono l'una dall'altra per il colore dei capelli.
Il cast, però, è da visibilio in confronto alla scenografia. La quale sembra sia stata messa su dai creatori di Art Attack in un giorno in cui la digestione era particolarmente difficile. Le mura di Milano, circondate da un temibile fossato largo una ventina di centimetri e profondo all'incirca la metà, sono risibili, e hanno l'aspetto di compensato dipinto a tempera e incollato con lo sputo: ne hanno pure la consistenza, visto che quando durante il celeberrimo assedio vengono colpite dai proiettili infuocati delle catapulte (che sembrano usciti, sia gli uni che le altre, pari pari dal peggior videogioco) si vedono volare per l'aere pezzi assortiti di cartongesso. In compenso gli spalti della cinta e la città tutta di Milano, dalle strade agli interni, sembrano appena puliti da una torma di collaboratrici domestiche rumene: dove ti giri e ti volti, non c'è un briciolo di polvere o zozzeria manco quando infuria la battaglia giacché si sa, le città nel Medioevo erano sporche e malsane solo a sud della Padania. La polvere è assente anche in qualsivoglia altro loco, e per motivi ignoti pure la mobilia. Vedere il palazzo del Barbarossa ignudo come un capannone abbandonato fa cadere le braccia. In compenso ci sono, ad esempio, delle perfette finestre piombate in stile fintoantico che sembrano uscite lilì da una fabbrica della profonda Cina, e probabilmente lo sono. Sono cose come queste che scaldano il cuore a un appassionato di storia.
Chi poi è appassionato di storia delle armi ha motivo di bearsi. La produzione si è vantata di aver fatto creare ex novo centinaia di abiti basati sull'iconografia del periodo e approntati da solerte manovalanza indiana: il che non spiega perchè molte delle comparse siano vestite con costumi che sembrano usciti dal più scalcinato teatro di provincia, ma si sa che le comparse le guardano solo quei rompipalle di cinefili. Spiega però perché le armi sembrino uscite da un magazzino Giocheria, reparto fantasy e medioevo. Le balestre sono in puro compensato, le torri d'assalto sono la sagra del buco (fessi quei milanesi a non buttargli addosso della sabbia bollente, ché ci verrebbe un fritto misto di nemico con i fiocchi), le armi da taglio realizzate in quel che sembra materiale plastico con una spruzzata di argentone. Non si capisce poi perché la cavalleria imperiale vada all'assalto con armature in foglio d'alluminio e le cavalcature non protette in qualsivoglia modo, che basta il colpo di falce del primo bifolco per far secco il guerriero teutonico: sarà perché se il succitato bifolco si fosse trovato davanti il cavaliere con l'armatura d'ordinanza, spessa come un muro e del peso di circa cinquanta chili, e a cavallo di bestione ben difeso da protezioni in metallo, si beccava un calcione nel posteriore e tanti saluti all'epopea padana.
Sulla sceneggiatura ci sarebbe da scrivere un trattato. E' infatti la perfetta sintesi di tutto quanto una sceneggiatura come si confà non dovrebbe essere. I dialoghi sono o stomachevoli per finto pathos o involontariamente ridicoli, i personaggi piatti come un'asse da stiro. Kasia Smutniak nei panni della pazza menagramo fa piangere, ma trattandosi di figura che ha lo stesso spessore storico dell'Alberto ci si può passare su. Il problema è quando i personaggi storici vengono biecamente piegati a esigenze di copione. E se del Barbarossa non si può fare a meno visto che è avversario del lombardo, qualcuno mi spieghi per quale accidente di motivo si deve tirare a forza nella mota Ildegarda di Bingen. Nel film sembra una visionaria deficiente avvilita da un copricapo a fusoliera, e nessuno sospetterebbe che si tratta di una delle più grandi mistiche del Medioevo. Però, tocco di classe, si allude sorvolando al fatto che "compone musica". Alludere sorvolando a ciò è un insulto, visto che Ildegarda è una delle compositrici di maggior spessore del periodo. Per inciso, fu anche drammaturga, cosmologa, teologa, filosofa, creatrice di lingue artificiali, e la lista potrebbe continuare all'infinito: vederla impiegata come comparsa da quattro soldi è cosa che grida vendetta a dio, e non solo perché è, fra le altre cose, una santa della romana chiesa. Che poi per darle corpo si svilisca un'attrice come Angela Molina è cosa che grida vendetta e basta.
Il colpo finale al tutto lo dà la regia. Di Martinelli ho visto diversi film, e nessuno mi ha convinto. Vajont riesce a rendere noiosa una delle vicende più appassionanti e drammatiche che abbiano segnato la storia del nostro paese, Porzus vorrebbe essere un'opera anticonformista ma risulta un polpettone indigesto, su Piazza delle Cinque Lune e Il mercante di pietre non mi esprimo perché in franchezza ho spento lo schermo per la noia. Se però altrove ogni tanto un guizzo di mestiere si trovava, qui non ve ne è traccia. La vagonata di milioni piovuti sulla produzione sembrano avere inebetito del tutto qualunque capacità di regia, e francamente non si capisce come siano stati spesi. Le riprese dei combattimenti, la cui coreografia fa pena e che dovrebbero essere il fulcro del film, sono piattamente televisive e la strombazzata crowd replication fa rimpiangere la versione beta di Medieval Total War: si vede lontano un miglio che le comparse sono al massimo una trentina, malamente replicate al computer in fittizie riprese dall'alto e mestamente sparse in gruppi di tre o quattro in quelle ravvicinate. L'effetto è avvilente, e rende i peggior filmacci storici prodotti con quattro soldi capolavori di credibilità.
Barbarossa, in sintesi, non è un pessimo film perché fa, come sostengono in molti, propaganda politica pro Lega. E' un pessimo film e basta.
Questo pessimo film, per inciso, è stato considerato di "interesse culturale nazionale", ed è costato 30 milioni di euro di cui 12 usciti dalle nostre tasche tramite mamma Rai che lo ha coprodotto. In sala, ne ha incassati poco più di ottocentomila nonostante una pubblicità martellante nei confronti degli elettori leghisti.
I quali elettori leghisti avrebbero, altrettanto per inciso, qualche motivo di incazzarsi. Barbarossa, oltre ai 400 costumi realizzati da manovalanza indiana (e dire che si sa, in fatto di costumi cineteatrali noi si bagna il naso a chiunque), si avvale di 12.000 comparse. Quasi tutte rom, che costano meno. E rom di nazionalità rumena, visto che il film è stato girato interamente in Romania. Sicché a rappresentare la Padania si sono impiegate le vaste pianure (paesaggisticamente stupende, va detto) di uno dei paesi più amati dai seguaci del senatùr, e a vestire i panni di fabbricazione indiana dei prodi lombardi sono torme di quei zingari che tanto piacciono a Borghezio. Però c'è il Bossi che fa un cammeo, e manco si sono curati di aggiustargli i capelli che sembrano tali e quali a quelli del tipo che pubblicizzava le matite Presbitero. Vuoi mettere.
Io, da parte mia, ho motivo di incazzarmi per aver perso due ore e passa a vedere una fetecchia malriuscita, la cui materia sarebbe risultata probabilmente un capolavoro in mano altrui. Basti pensare a quel certo film su un certo condottiero padano nato in quel di Forlì e girato da un certo regista lombardo. Il film in questione è Il mestiere delle armi, ed è la più magnifica ricostruzione che si possa immaginare della vita di Giovanni dalle Bande Nere. Ineccepibile da un punto di vista storico, dei costumi, delle ambientazioni. Sceneggiatura rigorosamente basata sulle cronache dell'epoca, eppure viva e attualissima. Girato in loco se si escludono le scene di battaglia, perfettamente coreografate e credibili senza impiego del computer: per quelle si è andati in Bulgaria, ma servivano distese coperte di neve che la Padania non può più fornire. Protagonista uno sconosciuto e giovanissimo regista (sì, regista) bulgaro, perfetto nel ruolo: Olmi riesce a far recitare credibilmente un blocco di travertino come Raz Degan, non ci si stupisca se un ignoto regista bulgaro con la sua guida offre una performance da visibilio.
Il mestiere delle armi, che ha avuto un contributo statale meritato e completamente restituito, è un film che Martinelli non riuscirebbe a fare neanche se lo sostenesse, anziché uno dei partiti al governo, Darth Vader in persona con tutta la sua claque di postnazisti in bianco. Del resto, il soggetto si presterebbe ben poco: condottiero nato a Forlì, ma al soldo dello Stato Pontificio, e perdipiù tradito dal padanissimo marchese di Mantova che ci fa la figura dell'untuoso doppiogiochista. Dio ce ne scampi e liberi.
Se però vengo a sapere che in un prossimo futuro è prevista generosa sovvenzione statale (ergo, con i soldi delle mie e vostre tasse) per qualsivoglia film di Martinelli, fosse anche un'agiografia di Alaimo da Lentini, giuro che lo vado a cercare armata di una spada laser rossa.
E saranno, assai romanamente, cavolacci suoi.
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