Liliana Adamo da Altrenotizie.org (un articolo del 17 settembre 2006).
Non è esclusivamente un giornalista e un politologo John Berger, ma uno scrittore e un entusiasta critico d’arte, affatto turbato d’aver contribuito ad un vero e proprio “incidente diplomatico” con i lettori di Ynet e Ynetnews, quando, l’8 agosto scorso, ha espresso tutto il suo dissenso contro l’attuale politica israeliana, dichiarandosi contrario alla guerra scatenata sul territorio libanese ma, soprattutto, puntando il dito sull’annosa e intricata “questione palestinese”. Berger, classe 1926, londinese, autore di saggi talmente celebri che la rete televisiva BBC, ha trasformato in una lunga serie TV, è il primo firmatario di una lettera aperta (e sottoscritta dalla migliore élite culturale attiva sulla scena odierna), che non usa mezzi termini, accusando le leadership israeliane di crimini di guerra contro l’umanità.
Harold Pinter, Noam Chomsky, il premio Nobel Josè Saramago, Arundhati Roy, Russell Banks, Gore Vidal e Howard Zinn, rinforzano unanimemente la medesima posizione: Israele ha torto. Nel dizionario di lingua italiana, nel lessico comune, il termine “torto” introduce il concetto di: “Ciò che è contrario a diritto, ragione, giustizia…“. Allo stesso modo, torna in mente il richiamo all’autore di un meraviglioso libro d’opposizione, che ha per titolo “Rabbia del vento“, ossia lo scrittore israeliano S. Yizhar: “…Fui accusato di mettere gli ebrei dalla parte del torto, ma a me non è mai interessato parlare di ragioni o di torti, bensì di quello che è successo e continua a succedere. Abbiamo tutti paura d’essere al centro dell’attenzione, perciò spesso preferiamo far tacere la nostra coscienza e uniformarci agli altri…Ci sono momenti difficili in cui non sappiamo cosa fare, cosa scegliere; in genere preferiamo evitare questo tipo di situazioni, pentircene in seguito, ah, cos’ho fatto…La domanda è invece, che fare, ora? La Rabbia del vento si conclude al tramonto, il giorno finisce, ma la situazione rimane uguale. Sessanta anni fa, come oggi, non si è ancora raggiunta una soluzione al conflitto israelo-palestinese…(1).
Yzhar Smilansky scrisse il suo romanzo più famoso basandosi su un’esperienza vissuta sulla propria pelle, durante il primo conflitto israeliano con i paesi arabi. Da soldato andato a difendere le proprie ragioni, man mano egli finisce per identificarsi con il “nemico”, vecchi, donne e bambini dei villaggi palestinesi rasi al suolo, scacciati oltre i confini della Giordania. E’ datata tra il 1948 e il 1949 la crisi di coscienza del soldato Yzhar. E’ nell’agosto del 2006 che il grande scrittore muore, mentre infuriano gli attacchi missilistici su Beirut e la valle della Beqaa, altri soldati inchiodano le loro ragioni e altri profughi fuggono dalle loro case.
Nell’avallo delle provocazioni, secondo Chomsky
Una successiva intervista “chiarificatrice” concessa da Noam Chomsky a Merav Yudilovitch, proprio per il sito israeliano di Ynetnews (e tradotta da Antonella Serio, per Peacelink), sembra voler rincarare la dose, esponendo ciò che si può avvalorare come l’analisi più spietatamente limpida condotta fino a questo momento. Citandone il titolo, se” L’Apocalisse è vicina“, allora si pone il caso di ripensare interamente all’asse mediorientale in tutte le sue sfaccettature e ripensarla in un unicum, vale a dire come un solo esemplare di tanti, troppi errori. O troppi torti.
Si sa, le guerre condotte dai grandi sistemi di poteri, tentano di rimuovere continuamente il “problema di fondo”, poiché Israele si è appropriata e persiste ad appropriarsi indebitamente di terreni e risorse di primaria importanza, lasciando le briciole ai palestinesi, porzioni di un territorio frammentario e rinvilibile, che li ha condannati ad una separazione costante gli uni dagli altri, in una Gerusalemme divisa e in un reclusorio come la Valle del Giordano, interamente occupato.
Cosa succede oggi a Gaza? Mentre il presidente Olmert e le fazioni meno oltranziste di Hamas, guidate da Abu Mazen, dicono d’esseri pronti al dialogo, le notizie che provengono dai territori, immediatamente dopo la risoluzione dell’Onu per il cessate il fuoco sul Libano, hanno il sapore amaro di una provocazione senza fine; scrive Marco Ansaldo su La Repubblica che: “…su alcuni quotidiani di Gerusalemme e di Tel Aviv puoi trovare analisi lucide, dissacranti, anticonformiste, che riducono alla ragione e quindi alla realtà. E’ una delle principali virtù di una società democratica puntualmente messa alla prova dalle passioni. Nelle ultime ore, grazie ai colleghi israeliani, mi sono reso conto che avevamo dimenticato la questione palestinese…“.
Il nodo scorsoio all’origine di tutte le tragedie intercorse tra Occidente e Medioriente, pretesto o no, è dunque nel “problema di fondo” menzionato da Chomsky; distrarre, fare finta di non sapere, manipolare la realtà dei fatti, significa rinviare quel problema, con esiti futuri inimmaginabili. Ancora una volta Gaza paga un prezzo altissimo, punita perché responsabile del rapimento di Gilad Shalit. Gli ospedali traboccano di malati, lasciati senza cure e medicine; a causa dell’embargo, i funzionari non percepiscono stipendi da mesi, le scuole sono chiuse e i ragazzi sono rimasti a casa e per le strade; non c’è alcun’attività commerciale, a nessuno è concesso d’entrare in Israele per recarsi al lavoro, proibita perfino la pesca. E non si trova più acqua, l’esercito israeliano ha bombardato anche l’ultimo stazionamento funzionante, l’energia elettrica va e viene, i rifiuti sono abbandonati in strada con cumuli d’immondizie bruciati che si levano dappertutto: questa è la Palestina libera ma frutto dell’odio e della guerra, priva d’organizzazione sociale, completamente allo sbando. L’occupazione, dice Ghazi Hamad, non può diventare il chiodo a cui appendere ogni questione; Hamas fa autocritica e pubblicamente riconosce le proprie ed altrui colpe. Una situazione ingarbugliata che non trova sbocco se non nella supervisione interiore dalle rovine, nella liberazione di un odio accecante radicato nel profondo per due popoli che hanno l’obbligo di vivere, di far nascere l’occasione al dialogo.
Ciò nondimeno, l’occasione del dialogo incomberà soprattutto su Israele e richiederà una correttezza schivata fino a questo momento. Il programma di riallineamento, camuffato, secondo Chomsky, da “ritiro” è, per esempio, completamente illegale e viola, ancora una volta, le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e della World Court. Un riallineamento che comprometterebbe la soluzione dei due stati, già ostacolata per trent’anni, grazie agli Stati Uniti, con il loro appoggio alle politiche espansionistiche israeliane.
Il conflitto in Libano pare come l’ennesima arma di distrazione di massa, per annotare in margine l’annichilimento di Gaza e dei palestinesi e anche l’acquisizione della West Bank, afferma Chomsky, si è di fatto eclissata.
Due pesi, due misure
Nel paragrafo d’apertura nella lettera di Berger, un’accusa (e non la più grave) lanciata contro i mezzi d’informazione e gli ambienti di sinistra, è quella di non capire, non ammettere alcun nesso tra ciò che accade nei territori occupati e ciò che è accaduto in Libano; com’è possibile, ci chiediamo, giustificare la cattura del caporale Gilad Shalit (per la quale si levano grida d’indignazione in tutto il mondo) con una tale intensificazione d’attacchi missilistici su un’intera nazione in cui è l’intera popolazione ad essere punita? Nessun organo di stampa internazionale (fatta esclusione di brevi comunicati dalle Forze Armate israeliane), ha diffuso le notizie inerenti ai ricorrenti sequestri di civili palestinesi, gli ultimi dei quali avvenuti a Gaza il 24 giugno scorso, di Osama e Mustafa Muamar. Nessuno al mondo ha inveito contro questi crimini, reclamando a gran voce attacchi aerei con bombe a grappolo contro Israele. Per Chomsky e tutti i firmatari della lettera-protesta di Berger, questa è la distorta e cinica “moralità” di noi occidentali. Ma c’è di più, i due fatti sono strettamente correlati, il rapimento dei due civili nei territori occupati, un reato che qualsiasi giornalista di stampa estera è a conoscenza e quello avvenuto il giorno seguente per mano della resistenza palestinese, elimina qualsiasi legittimità per operazioni belliche e al rapportato favore internazionale a queste iniziative. Lo stesso dicasi per il rapimento di due soldati israeliani avvenuto il 12 luglio scorso al confine con il Libano, vista la sistematicità con cui sono sequestrati civili libanesi anche in acque extraterritoriali e tenuti in ostaggio per lunghissimo tempo.
La replica più attendibile a queste affermazioni è rappresentata dal fatto che Israele ha diritto a difendersi, che i rapiti erano certamente terroristi di Hamas, pronti a farsi saltare in aria in qualche stazione di pullman a Gerusalemme; ma se così fosse, allora qual è la differenza rispetto al caporale Gilad Shalid, a capo di un contingente militare che stava ripetutamente cannoneggiando Gaza? Forse i morti palestinesi valgono meno di quelli israeliani… Dove si offusca la ragione e prevale la follia di queste aberrazioni?
In merito agli Hezbollah e all’Iran, nel 2003 il governo moderato di Khatami con il pieno sostegno dell’ala radicale più dura guidata dall’Ayatollah Khamenei, si offrì di trattare con gli Stati Uniti per la risoluzione di varie questioni, come la proposta dei due stati, il riconoscimento d’Israele e l’arricchimento dell’uranio. Poteva aprirsi uno spiraglio che avrebbe dato i suoi frutti, ma l’unica risposta da parte dell’amministrazione Bush fu quella di porre sprezzantemente un veto alla diplomazia svizzera che aveva lavorato per portare avanti l’offerta di dialogo. Anche in questo caso, nessuna rilevanza alla notizia, mentre per gli organi di stampa occidentali molta più rilevanza hanno le parole di fuoco del suo sottoposto, Ahmadenijad. Il potere dei mass media ha saputo ben giostrare il momento: se le dichiarazioni di Khamenei fossero state pubblicizzate, e, di conseguenza, Ahmadenijad messo a tacere, l’interesse internazionale si sarebbe indirizzato altrove e forse, con esiti diversi. A tutt’oggi, se Stati Uniti ed Israele persevereranno ad ignorare le proposte iraniane e faranno di tutto per evitare d’esaminarle, allora si prospetta una paventata soluzione non pacifica intorno alla questione dell’uranio arricchito. I mezzi di comunicazione non fanno altro che sproloquiare sulla “minaccia iraniana”, un paese che non ha mai invaso altri stati sovrani e mai avuto mire espansionistiche, mentre dovremmo riflettere su ciò che Israele e Stati Uniti fanno normalmente, con l’approvazione del mondo intero.
Il partito di Dio degli Hezbollah è il prodotto della politica egemonica d’Israele. Nel 1982, durante l’invasione del Libano, nel corso di una feroce repressione in barba a tutte le disposizioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, Hezbollah si forma come reazione armata a quell’occupazione, ottenendo prestigio e attecchendo fortemente nel tessuto sociale. La Risoluzione 1559 chiede il disarmo unilaterale delle milizie libanesi, anche se il governo non ha convertito una legge in tal senso.
Disarmare gli Hezbollah, condizione necessaria da parte israeliana per il dialogo, potrebbe essere il prossimo capitolo di questa storia inesauribile.
1) La citazione dello scrittore S. Yzhar è tratta da un’intervista di Dalia Padoa, pubblicata sul num. 33 del settimanale Diario.