Com’è debole Mediobanca. Se ne è accorto persino il Financial Times. Al di là della Manica, il prestigioso quotidiano della City, lo scorso 27 aprile, ha individuato nella fuga dei consiglieri dal board di Piazzetta Cuccia il sintomo principale del cattivo stato di salute della più nota banca d’affari italiana....
Tuttavia, gli abbandoni sono stati conseguenza di una legge dello Stato, il cosiddetto decreto Salva Italia che ha introdotto il divieto di cumulo di cariche in aziende che operino nello stesso settore. Quindi, è vero che messi di fronte alla necessità di scegliere, alcuni esponenti di spicco del consiglio d’amministrazione di Mediobanca (Vincent Bolloré, Fabrizio Palenzona, Ennio Doris e Marina Berlusconi) non hanno scelto la vecchia regista del capitalismo italiano, ma è anche vero che la decisione di abbandonare il campo non è stata del tutto spontanea.
Molto più significativi, invece, appaiono gli eventi che hanno mostrato concretamente quanto si sia alleggerito il peso dell’istituto un tempo retto dal grande burattinaio, Enrico Cuccia: la partita per la nomina dell’amministratore delegato di Rcs, quella per la guida di Generali e ultima, ma non per importanza, quella per il riassetto di Fonsai.
UNA VITTORIA A METÀ IN VIA SOLFERINO. Il metro della forza e del potere di influenza di Mediobanca sulle vicende della finanza nazionale è sempre stato la verifica di come i diktat provenienti dall’istituto, oggi retto dall’amministratore delegato Alberto Nagel, si traducevano nelle decisioni delle società che gravitavano nella sua orbita. Rcs, l’editrice che pubblica il Corriere della Sera, è senz’altro una di queste. Da qualche mese, su questo fronte, si lavora al rinnovamento della governance. E, in parte, i desiderata di Piazzetta Cuccia sono stati accolti. Quella del dimezzamento dei membri del board era un’istanza portata avanti da Nagel e sostenuta da un altro grande azionista della casa editrice: Fiat.
Detto questo, però, Mediobanca non ha potuto nulla, almeno sinora, sia sulla nomina dell’amministratore delegato sia sul rinnovamento della direzione del giornale. Già, perché per la prima carica, Nagel e il presidente Renato Pagliaro avevano individuato in un primo momento Giorgio Valerio (forse dimenticando che nel suo curriculm aveva anche la “campagna di Spagna” che oggi tanto fa penare Via Solferino) salvo poi dirottare le proprie preferenze su Pietro Scott Jovane, attuale amministratore delegato di Microsoft, entrato papa e uscito cardinale dall’assemblea del 2 maggio dove, tuttavia, il consiglio non è stato ancora in grado di prendere decisioni, scegliendo di affidare una reggenza pro tempore al direttore finanziario del gruppo, Riccardo Stilli.
Per la seconda, invece, Nagel, d’intesa con il presidente Fiat, John Ellkan, aveva proposto di sostituire Ferruccio de Bortoli con il direttore de La Stampa, Mario Calabresi. Ma anche in questo caso, l’indicazione è caduta nel vuoto.
LE BACCHETTATE DI DELLA VALLE. A sottolineare la debolezza di piazzetta Cuccia e del suo management, poi, ci ha pensato un vecchio volpone del salotto buono della finanza nazionale. Diego Della Valle, patron dell’azienda di calzature Tod’s, lo scorso 4 aprile ha annunciato a sorpresa la propria uscita dal patto di sindacato di Rcs. Libero di aumentare il suo 5,5% (il patto, invece, lo vincolava) si è sentito anche libero di criticare Nagel ed Elkann. «Per quanto mi riguarda, sono convinto che il Corriere della Sera debba rimanere assolutamente indipendente e rispondere solo ai propri lettori e non a qualche azionista. Se Elkann e Pagliaro hanno idee diverse, farebbero meglio a mettersi il cuore in pace e rendersi conto che i tempi sono cambiati».
Il 19 aprile, giorno dell’assemblea annuale di Tod’s, Della Valle si è scagliato contro Nagel e Pagliaro, rei, a suo dire, di non avere l’esperienza e i numeri per guidare l’istituto.
In quella stessa occasione, Della Valle ha sottolineato anche che l’attuale gestione di Mediobanca è responsabile delle difficoltà in cui versa Generali. La compagnia triestina «ha tutte le carte in regola per fare bene. Ma bisogna capire se Mediobanca è un freno al suo sviluppo, oppure lo può in qualche modo aiutare. Per come ho visto io operare Mediobanca in questi anni, la considero assolutamente un freno».
GENERALI, PERISSINOTTO RESISTE ALLA SPALLATA. Proprio attorno alle assicurazioni triestine, si è consumata una delle più sonore sconfitte incassate dall’establishment di Mediobanca nelle ultime settimane. Piazzetta Cuccia, così come ha raccontato Economiaweb.it, da tempo cercava di rimpiazzare il vertice di Generali. Da primo azionista del Leone, la banca d’affari milanese, ha provato a sostituire l’amministratore delegato Giovanni Perissinotto per la posizione troppo rigida sulle esigenze patrimoniali della compagnia. Il terreno di scontro, infatti, sarebbe stato il possibile aumento di capitale di Generali.
Anche in questo caso, Nagel ha spuntato solo una mezza vittoria sul suo “avversario”. Infatti, se da un lato (grazie al supporto degli altri grandi azionisti non intenzionati a metter mano al portafoglio) ha ottenuto che l’idea dell’aumento venisse riposta nel cassetto dal vertice di Generali, dall’altro non è riuscito a rimuovere Perissinotto e a consegnare il timone della compagnia a Mario Greco, numero uno del ramo danni di Zurich.
E dire che gli attacchi mossi contro l’amministratore delegato di Generali sono stati anche pesanti. Incluso quello di un altro azionista del Leone, Leonardo Del Vecchio, arrivato dalle pagine del Corriere della Sera, proprio nel giorno dell’assemblea annuale.
L’INDICE CONTRO DELL’ANTITRUST. Ma la vicenda più delicata in cui Mediobanca è impegnata in questo momento è la riorganizzazione della galassia assicurativa della famiglia Ligresti. Questa partita, cominciata proprio da Piazzetta Cuccia quando all’inizio del dicembre 2011 scrisse a Fonsai sollecitando un aumento di capitale da non meno di 600 milioni di euro, finora è servita solo alla proclamazione, da parte dell’Antitrust, della proverbiale nudità della banca d’affari milanese, sovrana tessitrice della trama per il riassetto delle finanze di due società fortemente esposte nei suoi confronti. Fonsai per oltre 1 miliardo di euro. E Unipol per circa 400 milioni.
Il diktat pronunciato da Mediobanca quando si è detta disposta a guidare il consorzio di garanzia per l’aumento di Fonsai ma solo nell’ambito della progettata operazione di integrazione a quattro con Unipol, Premafin e Milano, è stato richiamato dal provvedimento con cui l’autorità garante della concorrenza e del mercato ha sospeso l’operazione per verificare la possibilità che al termine della riorganizzazione possa nascere un operatore in posizione dominante sul mercato.
Quanto a Mediobanca, cosa mai accaduta prima, l’Antitrust ha indicato chiaramente come la sua posizioni risulti complicata da un potenziale conflitto d’interesse per il fatto di essere già il primo azionista di Generali (principale competitor del nascente gruppo assicurativo) e potenzialmente socia della cosiddetta grande Unipol qualora, nella sua veste di capocordata del consorzio di garanzia dell’aumento di capitale di Fonsai si ritrovi a dover sottoscrivere una parte della ricapitalizzazione.
LA GRANDE REGISTA NON C’È PIÙ. Queste tre vicende offrono più di qualche indicazione su come il ruolo di fulcro del potere finanziario italiano, che fino a pochi anni fa era giocato in maniera indiscussa da Piazzetta Cuccia si sia profondamente ridimensionato.
Mediobanca sembra avere perso il ruolo di grade regista delle vicende del capitalismo nazionale per diventare solo uno dei tanti attori del mercato.
Anche le classifiche sembrano raccontare questa parabola. Per trovare Mediobanca in cima alle league tables delle operazioni straordinarie italiane bisogna tornare indietro di tre anni, al 2009, quando Piazzetta Cuccia mise la firma su 18 operazioni per un valore complessivo di 25,3 miliardi. Già l’anno successivo questa attività risultava molto ridotta.
Pur rimanendo alto il numero di operazioni seguite (20) il loro valore risultava sceso a 5,7 miliardi indicando che la banca d’affari non era riuscita a intercettare i cosiddetti big deal. Nello stesso anno, invece, a parità di operazioni seguite, Banca Imi (Intesa SanPaolo) aveva seguito affari per 14,6 miliardi.
Stessa musica nel 2011: 25 operazioni per un valore di 4,7 miliardi. Mediobanca, stando alle indicazioni di Merger Market, non è andata oltre l’undicesimo posto della classifica delle banche d’affari attive in Italia. source